Questo è il primo libro che leggo di Faulkner, se escludo il
tentativo abortito di "L'urlo e il furore", lessi inoltre "La paga del soldato", troppi anni fa per influenzare
in qualche modo queste mie riflessioni.
Conosco, comunque, per via indiretta il contesto storico geografico in cui Faulkner visse e quanto sia stata innovativo il suo linguaggio letterario nell’ambito della letteratura americana.
La grande foresta è in forma di romanzo ma riunifica una
serie di testi già pubblicati antecedentemente aventi come filo conduttore il
tema della caccia ( in alcune edizione è presente un sottotitolo: Racconti di
caccia) ma più ancora avendo medesimi
personaggi in tempi diversi e soprattutto individuando nella Foresta il
personaggio principale.
In una mia, forse arbitraria o estremamente banale,
considerazione, gli scrittori americani si suddividono in due grandi filoni,
quelli di città e quelli di provincia, F. fa sicuramente parte dei secondi e la
provincia di cui parla è quella del sud degli Stati Uniti, quella che, alla fine
della guerra di secessione, aveva subito
un declino culturale, sociale ed economico irreversibile da cui forse non si è
mai, completamente, risollevata.
Tali scrittori sono coloro in cui possiamo trovare un
rapporto più diretto con l’ambiente naturale, una ricerca più viscerale del
legame dell’uomo con la natura, uno sforzo a comprendersi come un elemento di
un Tutto più che come costruttore di artifici e speculazioni mentali atti a
elaborare una vita in cui porsi al centro come dominatore assoluto.
Per quanto la colonizzazione dell’America abbia fatto di
tutto per eliminare, fisicamente e culturalmente, i nativi di quella terra,
alcune delle loro idee e dei loro comportamenti di vita hanno fatto breccia
negli animi e nelle menti di alcuni coloni, per esempio l’immagine dell’indiano
libero e in movimento nei territori sconfinati e il rapporto che quel popolo aveva
con la natura. Il loro concetto, che oggi chiamiamo ecologico, era basato sul
fatto che l’uomo era parte integrante dell’ambiente in posizione egualitaria con
tutte le altre forme di vita che rispettava e di cui al contempo si serviva per
la sua sopravvivenza. Il mondo naturale è costruito come un sistema
autosufficiente in cui ciascun organismo ha la sua funzione. Nella natura non
esiste pietà, quando proviamo orrore nel
guardare una gazzella inseguita e catturata da un leone,
proviamo un sentimento estraneo al contesto a cui lo
riferiamo; ma come non esiste la pietà neanche
la crudeltà ne fa parte, ogni cosa ha un suo specifico compito per preservare e
conservare il tutto, senza emozioni, senza sentimenti, senza alterazioni
mentali, è la vita, nel senso più ampio del suo significato, nella sua
semplicità essenziale.
Se l’uomo non si compenetra in questo meccanismo, e non l’ha
fatto e non lo poteva fare completamente nell’evoluzione quantitativa e
qualitativa della sua specie, inevitabilmente ne altera l’equilibrio.
Se qualcosa nell’eco sistema non ha funzionato è proprio l’essere umano, il più dotato essere vivente del pianeta, con il suo sviluppo negli anni, pochissimi in confronto a quelli dell’habitat in cui vive, ne ha stravolto l’equilibrio, perdendo la funzione che aveva in correlazione con le altre affinché il tutto funzionasse e soprattutto forzando quel tutto “in funzione” del suo sviluppo.
Se qualcosa nell’eco sistema non ha funzionato è proprio l’essere umano, il più dotato essere vivente del pianeta, con il suo sviluppo negli anni, pochissimi in confronto a quelli dell’habitat in cui vive, ne ha stravolto l’equilibrio, perdendo la funzione che aveva in correlazione con le altre affinché il tutto funzionasse e soprattutto forzando quel tutto “in funzione” del suo sviluppo.
E in questa presa di potere “disfunzionale”, l’uomo ha perso il senso
della sua partecipazione al cerchio della vita, ha perso il significato dell’esistere come compartecipante
a un unicum, ha cercato soluzioni esistenziali in immaginarie costruzioni
religiose e macchinosi intrecci filosofici, o ha estremizzato razionalmente la sua
vita perdendo la percezione magica e sensitiva di essa, quel rapporto diretto e
non mediato con il mondo naturale.
Cosa c’entra tutto questo con il libro di Faulkner? C’entra almeno per me perché è questo che mi
è venuto in mente leggendolo. È una letteratura “includente”, espressivamente
potente, lo stile narrativo fa si che le parole scritte e poi lette si facciano immediatamente
veicolo ricettivo di un luogo, di una persona , di un evento, la distanza di
tempo, di spazio, il salto tra realtà e finzione si annullano per l’efficacia
della sua capacità evocativa.
E’ come se anche il lettore attraversasse quel muro ancestrale
che nel libro è rappresentato dall’apparire della foresta ai margini della
terra spianata dall’uomo, margine che avanza sempre di più, come se vi entrasse
dentro e si compenetrasse con ogni forma
vivente al suo interno, alberi, animali, percependo e diventando egli
stesso parte dell’essenza vitale, senza
tempo e immateriale, che le pulsa dentro.
Altri due libri, seppur molto diversi tra di loro, hanno contribuito alle considerazioni fatte sopra: "Inagehi" sul rapporto tra natura e nativi e "Indian creek" sull'esperienza di un giovane uomo che decide, per lavoro, di passare un intero anno da solo sulle Montagne Rocciose.
come è possibile aver letto solo la grande foresta e sostenere che la paga dei soldati non è "rappresentativa del narrare" di faulkner?
RispondiEliminami sa che hai ragione anonimo, è stato un azzardo il mio, non ricordo perchè scrissi quella cosa francamente, quale, vista la mia poca conoscenza dell'autore la fonte che me l'ha suggerita...forse mi riferivo alla diversità di stile letterario che mi sembrava aver colto tra i due libri, rileggerò "La paga del soldato" per verificare questa cosa, lo scopo del mio post era solo quello di fermare l'impressione che "La grande foresta" mi aveva suscitato.
RispondiEliminaHo effettivamente tolto la frase a cui si riferisce anonimo
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