domenica 12 aprile 2015

Tre personaggi in cerca d'amore

Scomparsi è il libro di esordio di Mary McGarry Morris del 1988, a cui ne sono seguiti molti altri,  in Italia  è stato tradotto e pubblicato solo questo, uscito nel 2014 con la traduzione di Antonio Bischioso per la Fandango/Playground.
Dell'autrice, sul web, si trovano solo pagine in lingua inglese, è pressoché sconosciuta da noi, lodevole, quindi,  la scelta di Fandango di inserirla nel suo catalogo partendo proprio dal suo primo libro, che merita di essere letto.
Siamo ormai abituati alle storie di marginalità americana, sia in letteratura che in cinematografia, agli orrori e ai gioielli umani che si trovano sparsi nella sconfinata provincia americana, Morris ne ha scovati altri e ce li racconta senza stupore, nonostante il livello di esclusione che vivono i personaggi del suo libro sia veramente particolare.

Nel giro delle poche pagine che iniziano il libro, senza che siano definite come capitolo o prologo, accadonono gli eventi che, qualificati come storia vera, innesteranno un "on the road" stralunato e drammatico.

Aubrey Wallace, anonimo e solitario personaggio, intimorito dalla vita e dalle persone, persino dalla  moglie e dai figli, con una personalità infantile e un mondo affettivo vuoto e bisognoso di essere colmato, viene letteralmente trascinato da una adolescente, Dotty, che entra nella sua vita quasi come un'apparizione, in un viaggio senza meta e senza tempo in cui sarà coinvolta anche una bambina, Conny, sottratta piccolissima ai genitori da Dotty stessa in una delle sue folli azioni in cerca di cibo.

Vagheranno per cinque anni negli Stati Uniti, senza mai fermarsi se non per pochi giorni, vivendo di espedienti; la loro è una fuga da un eventuale arresto e dal niente e dal dolore che la loro vita ha rappresentato, senza che mai sia apparso uno spiraglio di serenità.
I tre si appoggiano l'un l'altro come naufraghi ad una zattera con poche probabilità di galleggiare.
La bambina li chiama mamma e papà, inevitabilmente si aggrappa a loro facendo di quella vita errabonda e sconclusionata una vita "normale", l'unica che riesce a conoscere e individuare come tale.

Il rapporto tra Aubrey e Dotty, iniziato come una fiaba malata, si sviluppa in un intreccio improbabile di attenzioni affettive, di paure e di tensioni individuali a volte condivise; lui ha un atteggiamento passivo, quasi di sottomissione ai comportamenti della ragazza, si lascia guidare e non partecipa alle scelte se non come mero esecutore; Dotty agisce in modo completamente istintivo, convulso e imprevedibile creando un vortice di eventi al limite dell'assurdo.
Sarà proprio per  volontà della ragazza che, pur essendo Wallace contrario, decidono di fermarsi in uno scalcinato bungalow che un altrettanto scalcinata famiglia affitta. In questo ambiente, dove presto saranno inseriti nella quotidianità del nucleo familiare, la desolazione si tinge del colore sporco dello squallore profondo, isterico, criminale, violento e malvagio.
Si instaurano delle dinamiche di dipendenza e complicità tra tutti,  in cui la principale vittima è la piccola Conny che subisce tutto quello che accade;  nulla però, neanche una capacità decisionale di Aubry per salvare la situazione, riuscirà a sottrarli agli intrighi di Jiggy, equivoco personaggio che cercherà di sfruttare la situazione illecita in cui sono i tre sono invischiati, per far soldi. Gli eventi si incastrano, si sovrappongono per arrivare poi all'epilogo,(così definito nel libro l'ultimo capitolo), dove, già accaduta ormai la conclusione della storia, è Dotty a parlare, in un finale che ricorda quello di Psyco di Hitchcock.

Un libro così è un'infiltrazione di desolazione lenta e inesorabile, non c'è via d'uscita, un momento liberatorio a contrastarla; si va avanti nella lettura sperando che succeda qualcosa a interrompere una sequenza di situazioni a dir poco assurde, ma i personaggi sembrano imprigionati in una gabbia che la vita e loro stessi hanno costruito e da cui non riescono a uscire. La loro umanità è nascosta nelle pieghe dei loro pensieri; personaggi marginali, che fanno parte delle vite abbandonate dai protagonisti, fanno intravedere altre sofferenze, altri mondi, altre malattie dell'animo. Il tutto è raccontato con una stile disadorno, essenziale,
come a dire semplicemente: anche questo può succedere nei meandri della vita ai margini dell'american way of life.
La mano aperta in copertina, inchiostrata di nero, come fosse un'immagine in negativo, e con la bandiera americana sovrapposta al nero sembra essere un monito o una resa, o l'ineluttabilità dell'essere statunitense, un'indentità talmente profonda da essere incisa nell'elemento più individuale di ognuno, le impronte digitali.




sabato 21 marzo 2015

Whiplash di Daniel Chazelle

Whiplash di Daniel Chazelle
è, a mio avviso, un film sulla passione, non quella amorosa, ma sulla passione in generale, nella fattispecie la musica, e uno strumento in particolare, la batteria.

Andrew (Miles Teller), protagonista del film, ha verso lo strumento una dedizione totale, la sua musica è il jazz, frequenta il Conservatorio di Manhattan e viene scelto dal prestigioso insegnante Terence Fletcher ( J.K.Simmons) a far parte della sua band, considerata un'eccellenza.
Andrew è provvisto del talento necessario a emergere come musicista e della volontà proporzionata affinché questo possa avvenire; esercita così la sua passione in modo esclusivo facendo intorno a sé un volontario vuoto relazionale e affettivo, concentra la sua vita nello studio del suo strumento e nella realizzazione di sé attraverso quello. In questo quadro personale del ragazzo si inserisce la figura di Fletcher, il suo corso è ambito dagli studenti, è lui che li sceglie, come fa con Andrew, è lui che li espelle se non corrispondono alle sue aspettative. E' uno scopritore di talenti, ma il suo corso è un girone dell'inferno per chi vi partecipa, vuole essere, il suo, uno stimolo all'impegno assoluto, al sacrificio di qualsiasi altra cosa esuli dallo studio per far emergere le proprie capacità.

I suoi metodi, vanno però oltre qualsiasi umana concezione dell'insegnamento, è con il terrore che esercita la sua professione, incutendo paura, usando
l'insulto personale come stimolo alla perfezione esecutiva, insinuando una rivalità malata carica solo di arrivismo e competitività privi di qualsiasi elemento di solidarietà e comprensione umana, stabilendo un clima di sottomissione in cui il dissenso non è previsto se non come mezzo per essere escluso. Trasforma l'amore per la musica nel fango di un campo d'addestramento dei marines, la scena in cui "rimprovera" un suo studente "non magro"sembra quasi una citazione del tenente Hartman di Full metal jacket, e non a caso, come quello, provocherà il suicidio di un suo alunno.
Nessuno della band si ribella, ormai assuefatto al
motto mors tua vita mea.
E  seppur la severità può essere una metodologia di insegnamento per spronare allo studio intensivo e per far emergere delle eccellenze, la malvagità e i metodi quasi razzisti sono un modo di annientamento di qualsiasi personalità e dignità umana.

Andrew, in questo contesto, porterà all'esasperazione lo studio del suo strumento, fino a macchiare col sangue delle sue mani la batteria, nel tentativo si eseguire alla perfezione il brano in 7/4, (ritmo complicato e difficile da realizzare) Whiplash, il cui significato, Frustata, sembra una metafora delle lezioni di Fletcher.


Il conflitto  che si instaura tra discente e docente si svilupperà a livello psicologico, emotivo e anche fisico; si ribellerà il ragazzo al maestro, anche con l'aggressione e con la denuncia, fatta in forma anonima, al conservatorio. Neanche da lui avremo, però, un moto di ribellione diretto ed esplicito a favore dei suoi compagni che restano tutti in balia di Fletcher che, sebbene abbia una sua autorevolezza, che gli deriva dalle sue capacità professionali, impronta il suo insegnamento sull'esercizio di una autorità esacerbata e diseducativa.

La tenacia del ragazzo e una certa casualità lo porteranno alla fine a suonare in pubblico con la band di Fletcher, ottenendo riconoscimento e applausi meritati.

Il film ha una sua specificità formale, adeguata al contenuto e con un suo fascino, la scena iniziale in cui la telecamera si muove all'interno di un corridoio avvicinandosi al ragazzo che suona la batteria è preludio di un atmosfera claustrofobica, è infatti dal buio di quella stanza che apparirà Fletcher quasi come un demone che si materializzi; la maggior parte delle scene sono realizzate all'interno del conservatorio mantenendo così un clima cupo a contrasto con le scene girate in esterno che sembreranno quasi disturbare l'attenzione dello spettatore.

Sono spesso usati dei primi piani molto ravvicinati, quasi si volesse entrare dentro i personaggi o farli uscire fuori dallo schermo.

Tornando a quanto detto all'inizio, secondo me, il nodo centrale del film è la passione, non quella passiva in base alla quale si ha uno specifico interesse per qualcosa di già esistente, letteratura, cinema,arti figurative etc. che pure può prendere una grossa fetta della propria vita, ma quella attiva in cui un particolare talento o addirittura una forma di genialità si rendono partecipi del processo creativo. In tutti e due i casi la propria vita ha una marcia in più per cercare un senso e una realizzazione di sé stessi, ma nel secondo la dedizione può essere totale ed esclusiva, tanto da risultare l'unico elemento significativo dell'esistenza.  L'egocentrismo e una visione univoca attraverso cui filtrare la realtà portano a uno straniamento dagli altri, a una concentrazione delle proprie energie verso l' alimentazione della passione, emarginando quasi completamente gli altri stimoli della vita a cose secondarie e accidentali.

Andrew rientra appieno in questo tipo di persona, è con lui che la trama sviluppa quello che può essere avere una passione ed egli sceglie di viverla fino in fondo; quale sia poi un giudizio qualitativo su questo tipo di vita, è discussione interessante ma non può rientrare in questo post.

Si può discutere invece sulla figura di Fletcher, sui suoi metodi di insegnamento e su quanto essi possano avere un effetto positivo, come sembra suggerire la conclusione del film,  su un processo di crescita personale del tipo sopra descritto.
A parte gli elementi diseducativi quali l'istigazione a una competizione senza regole e l'umiliazione dell'individualità dei discenti, non mi sembra che un atteggiamento violento, urla in faccia e insulti, possano stimolare la creazione di talenti e alimentare in loro la passione per qualsiasi cosa; è un processo interiore quello dell'esercizio di una passione; se disciplina ci deve essere sarà autodisciplina, se esclusione dalla quotidianità è necessaria sarà auto esclusione, se in parte sottintende la negazione di una parte di sé, ciò non significa la rinuncia alla dignità e alla pretesa del rispetto personale.

Chazelle, ha spostato il tema del successo dalle edulcorate e ambigue ambientazioni di Hollywood,  a un austero conservatorio di Manahattan, ha costruito un film originale come tematica e come struttura, ha però inserito un elemento, l'insegnamento di Fletcher, che io, in base naturalmente alla mia personale percezione del suo lavoro, trovo come punto debole e fuorviante, sopratutto se lo si vuole mostrare con una valenza positiva.















domenica 1 marzo 2015

Birdman di Alejandro Gonzales Inarritu

Il ritmo incalzante di una batteria, il tictac di un orologio, dialoghi serrati, scene che si susseguono senza nessuno stacco, corridoi angusti, voli umani più o meno immaginari, meteore incandescenti che cadono.

Riggan Thompson, il protagonista del film, attore che ha raggiunto il successo interpretando Birdman, supereroe alato e  mascherato, in un classico film americano di cassetta, decide di riscattarsi da un passato professionale di poco spessore intellettuale e anche da una vita personale poco soddisfacente (é separato, ha una figlia adolescente da poco uscita da un centro di disintossicazione), mettendo in scena e interpretando uno spettacolo teatrale tratto dalla raccolta di racconti di Raymond Carver, " Di cosa parliamo quando parliamo di amore?"
Thompson si muove fisicamente tra un camerino trasandato e fatiscente, i cunicoli stretti del teatro, il suo palcoscenico e le vie caotiche di NY ; professionalmente esce dall'apparato artefatto Hollywoodiano per entrare in quello teatrale dove si alternano problemi economici a problematiche relative alla mediocrità degli attori o alla loro grandezza smorzata da caratteri a dir poco eccentrici, dove tutto è in mano ad arroganti e autoreferenziali critici teatrali che decidono le sorti di uno spettacolo; personalmente si dibatte nello sdoppiamento di personalità che lo perseguita: Birdman è diventato il suo alter ego, lo incalza per cercare di riportarlo a interpretare ancora il ruolo cinematografico che gli aveva dato successo. Riggan lo sente, lo vede, ci discute, ci litiga, non riesce a scrollarsi di dosso l'ebbrezza della notorietà, del successo facile, ma non è più giovane e vorrebbe dare alla sua vita una svolta che dia un senso più profondo alla sua esistenza. Intorno a lui è evidente "il genocidio culturale" in atto attraverso i media, la creazione virtuale di eventi e personaggi tramite i social network, la possibilità di diventare qualcuno pur essendo niente, la glorificazione di qualcuno o qualcosa senza che abbia dei meriti effettivi per giustificarla, una melma in cui viene decerebrata la realtà e impantanata la verità. C'è una scritta significativa, su di un foglio attaccato allo specchio del camerino: "Una cosa è una cosa, non quello che si dice di quella cosa", sembrerebbe messo lì a promemoria di un più attento e coscienzioso contatto con la vita reale.

Questo il nodo narrativo del film, per svilupparlo tante immagini reali e surreali, tante parole che si susseguono quasi senza interruzione alcuna, c'è un sacco di roba e un sacco di modi per dirla,
faccio un tentativo di sciogliere gli elementi che lo contengono.

La batteria: sta per l'incalzare del tempo (come del resto il ticchettio dell'orologio) e il frastuono della vita che ci circonda?
La meteora in fiamme che cade: bruciamo le cose e le cose bruciano noi,  il successo è un fuoco effimero che si spegne e ci porta a impattarci con la realtà?
Birdman alter ego: se metafora dev'essere perchè renderla così evidente nell'inseguimento che il super eroe fa del protagonista del film? perchè palesarlo in questo modo? l'immaginifico perde il suo fascino nella rappresentazione minuziosa dell'irrealtà.
Le sue capacità piscocinetiche: vogliono suggerirci che lui è Birdman? sposta gli oggetti con la forza del pensiero,  rimane sospeso in aria mentre medita, lo si vede alzarsi in volo, le persone sulla strada, dalle finestre lo vedono volare, atterra davanti al teatro, ma la scena immediatamente successiva ci fa capire che in realtà è arrivato in taxi.
Perchè poi la scelta di Carver? la realtà che lo scrittore rappresenta nella sua narrativa, come pure le sue modalità di scrittura stridono con il contenuto e il linguaggio del film. In realtà, a Carver ci sono poi pochi riferimenti: nello spettacolo teatrale di Thompson , per quanto ne vediamo, è rappresentata solo una parte del racconto che dà il titolo alla raccolta dello scrittore americano, la scena della tavola, mentre il resto dello spettacolo non gli appartiene; un altro riferimento è posto all'inizio del film quando viene citata una nota frase con cui lo scrittore rispose a una esplicita domanda:
"E hai ottenuto quello che volevi da questa vita, nonostante tutto?
Si
E cosa volevi?
Sentirmi chiamato amato, sentirmi
amato sulla terra"
Se questo è il senso ultimo del film, data la premessa in epigrafe, il suo finale ne è la diretta conseguenza?

Se mi faccio tutte queste domande non è perché penso che un film debba essere esplicito e non lasciare dubbi interpretativi e che debba essere del tutto decodificabile, ma, al contrario, perché ho avuto l'impressione che le parti surreali siano troppo semplicistiche.
Insomma c'è troppa roba, quasi troppo scontato il lato immaginifico, troppo evidente la metafora,  in fondo è una ripetizione continua della stessa cosa, degli stessi elementi narrativi, anche la fine...sembra non finire mai....e anch'essa si ripete.

Sembra che la tecnica cinematografica, di indubbia qualità, da forma atta a esprimere diventi essa stessa sostanza del film, che non sia il veicolo per raccontare qualcosa, ma che quel qualcosa serva per realizzare quella forma.
Inarritu è messicano, ha fatto film che mi sono piaciuti, originali e di spessore contenutistico,  ma qui mi sembra che sia riuscito a ripetere la classica formula con cui il cinema americano riesce a glorificare l'America pur criticandola, a ribadire il suo mito pur contestandolo.

Forse sono io che non ho capito il film, il dubbio mi rimane, ma la sensazione che mi ha lasciata è stata quella di un deja vu, di una semplicità contenutistica nascosta da una complessità stilistica
Il film è comunque dotato di un ottimo cast, di un montaggio "nascosto" che rende il film un flusso continuo e senza interruzioni delle scene che lo compongono e di un'adeguata e potente colonna sonora che lo scandisce e lo accompagna quasi incessantemente.

Ma i dubbi sulla validità complessiva del film rimangono.
Qui potete leggere una bella recensione completamente opposta alla mia anche se i punti di riflessione sono più o meno gli stessi.













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giovedì 26 febbraio 2015

Selma di Ava DuVernay

Ava DuVernay, afroamericana già vincitrice al Sundance Film Festival del 2012 per Middle of nowhere, ha diretto un film storico dove il soggetto è quindi circoscritto dagli eventi che racconta, le marce, da Selma, Alabama, fino alla capitale dello stato Montgomery,


che, nel 1965, segnarono l’apice della lotta degli afroamericani per poter esercitare il diritto di voto a loro riconosciuto dal XV Emendamento della Costituzione nel 1870 ma di fatto osteggiato nel sud segregazionista.
Selma, però, è molto di più, perché con la sua intensità narrativa ci porta all’interno di un problematica mettendone a fuoco i vari aspetti sociali e personali.
Inizia con l’assegnazione del Nobel per la pace a Martin Luther King  e subito dopo viene inserita una potente e drammatica scena sulla bomba che membri del KKK fecero scoppiare in una chiesa afroamericana uccidendo quattro bambine; si introduce così quale fosse la realtà degli stati del sud degli Stati Uniti e come contrastasse un riconoscimento così solenne, quale il Nobel, con la realtà del razzismo e i livelli di crudeltà a cui arrivava, senza che le autorità federali intervenissero. Bastava uno sguardo, una parola non gradita perché un nero fosse ucciso, torturato, bastava passare per la strada per essere stuprata, bastava vivere per essere uccisi.

La figura di Martin Luther King è al centro del film, ma non se ne dà una visione agiografica, è l’uomo che viene colto, conscio delle proprie responsabilità di leader, assalito da paure e dubbi, teso nell’intento di scegliere la cosa giusta per l’intera comunità che guida.
La tensione per King era anche quella di garantire la non violenza da parte degli afroamericani, cosa difficile da realizzare perché significava non reagire all'essere picchiati, a vedere donne, bambini e anziani colpiti dalla ferocia della polizia e delle bande di bianchi armati e senza divisa che si prestavano, ben contenti di farlo, al pestaggio dei manifestanti. Era, la non violenza, una scelta morale ma anche un modo per far emergere la brutalità della repressione e cercare di coinvolgere l'opinione pubblica bianca che non condivideva il razzismo e le forme in cui si manifestava.

Controaltare a questa tipologia di comportamento non violento era rappresentato dalla dottrina di autodifesa armata di  Malcolm X, che appare nel film in un breve frammento in cui incontra Coretta Scott King mentre il marito è in carcere. X era a Selma, il 4 febbraio, perchè sollecitato a partecipare dal SNCC, l'organizzazione non violenta degli studenti, a una conferenza organizzata dalla Southern Christian Leadership Conference e sponsorizzata dallo stesso King, ma anche perchè, nonostante le sue critiche al movimento del pastore protestante, era affascinato dalla costanza e dal coraggio della battaglia di Selma. Parlò a una folla di 300 persone lodando l'impegno di King, ma ponendo come alternativa, a un eventuale suo insuccesso, la sua tipologia di resistenza.
La figura di Malcolm è quasi evanescente nel film, nei pochi momenti in cui appare, il 21 febbraio sarebbe stato ucciso, fa immaginare un possibile avvicinamento tra i due leader, se non per condividere il metodo di lotta, per la costruzione di una stima reciproca. Si avverte anche  in questo piccolo, ma, secondo me, intenso frammento, quale sarà anche il destino dello stesso King.

Du Vernay, ha girato un film reale e potente, in cui la descrizione degli eventi ha la forza della verità, nella sua crudezza e nella sua forza,  in cui i semplici fatti sono arricchiti dai retroscena  personali di tutti coloro che vi parteciparono, in cui la lotta per la giustizia ha lo spessore profondo delle sofferenze di ogni singolo partecipante; dietro ad ognuna di quelle persone che sfilarono da Selma a Montgomery, c'era una vita, delle aspettative, dei desideri, il diritto di esercitare la possibilità di essere una "persona".
Sono state mosse critiche alla regista per aver dato un'immagine negativa di Lyndon Johnson, ma da quello che mi risulta i fatti avvennero proprio così, e l'atteggiamento del Presidente fu esattamente quello descritto, e bene lo sottolinea King quando, sollecitato a rinunciare alle marce per evitare violenze, rispose che non era lui a dover fare un passo indietro ma lo Stato a doverne fare uno in avanti  e garantire, una volta per tutte e per tutti, i diritti Costituzionali tanto decantati per tutti i cittadini americani ma osteggiati per la popolazione afroamericana, di ribaltare quello che di fatto era il segregazionismo: il non diritto di vivere per i neri e il diritto di non farli vivere dei bianchi.

Mi viene da fare un'associazione tra questo film e i libri di Richard Wright, uno fra tutti/e gli/le scrittori/ttrici afroamericani/e.

Un'immagine mi ha colpito e mi sento di segnalarla quale sintesi, quella in cui un poliziotto, che si prepara a respingere la marcia, avvolge sul proprio manganello del filo spinato.
Quello che segue è un filmato della terza marcia, quella che arrivò a Montgomery.










lunedì 16 febbraio 2015

American sniper di Clint Eastwood


Il film è tratto da un libro, l’autobiografia di Chris Kyle, protagonista del film, texano, cow boy come lo si può essere oggi; la sua vita scorre nella normalità della provincia, i principi che lo sorreggono sono quelli classici e radicati nella tradizione americana-Dio Patria Famiglia- e uno in particolare, trasmessogli dal padre, quello di essere il “cane pastore”, colui che è in grado di usare la propria forza, al di là di considerazioni morali consolidate, per difendere le pecore (le vittime) dai lupi ( coloro che consciamente usano la loro forza in modo spietato a danno di altri). Quando vede le immagini degli attentati in Kenya prima e poi quelli alle Torri gemelle, decide senza la minima esitazione, di diventare per gli Stati Uniti il cane pastore di cui parlava il padre, di usare la sua infallibile mira per difendere la propria nazione. Diventa così, dopo un addestramento che prelude alla ferocia della guerra, cecchino in Iraq in quattro missioni, e la sua bravura è tale da essere chiamato dai suoi commilitoni “The Legend”.
Difficile parlare di questo film per chi come me apprezza la filmografia di Eastwood, ci si trova di fronte a un film sulla guerra, specificatamente la seconda in Iraq, che non pochi problemi, anche al di là di aspetti ideologici, ha causato a vari livelli, umanitari e geopolitici, e che basata su false e opportunistiche legittimazioni ha scoperchiato il vaso di pandora del medio oriente, di cui oggi vediamo le ultime atroci conseguenze.
Difficile perchè, almeno a me, mette in imbarazzo il contrasto tra l'indubbio valore stilistico e contenutistico del film e lo sbilanciamento che si avverte nel racconto delle due parti in gioco, statunitensi e iracheni.
Una chiave di lettura che mi viene da utilizzare prende spunto da quel " lupi agnelli cani pastore".

E' una metafora che, anche se non palesata come in American sniper, è spesso usata nei films di Eastwood e nella cultura americana, di cui lui, nel bene e nel male, è portatore.
La nascita del "grande paese" si è concretizzata come una occupazione violenta dei vasti territori da parte di soggetti dalla più varia provenienza e spinti da molteplici motivazioni.
Da quel coacervo di personaggi che realizzarono l'occupazione da est a ovest, dalle innumerevoli situazioni che si crearono di sopraffazione, razzismo, violenza gratuita, crudeltà efferate, da tutte le spinte che quegli uomini e donne portavano con sè, speranze, paure, disperazione, voglia di riscatto e felicità, una figura riscuoterà un aurea di leggenda, quella del "pistolero buono", il Chris Kyle della frontiera, il cane pastore che, pistola in mano vendicherà e impedirà soprusi ristabilendo un senso di giustizia umana non supportata da leggi, ma tutelata da quella stessa violenza che l'ha calpestata. Cito alcuni dei titoli della filmografia di Eastwood in cui è presente il "cane pastore", Il texano dagli occhi di ghiaccio, La città senza nome, Gli Spietati, Gran Torino e, forzando le parti in gioco, anche Million Dollar Baby dove l'ordine da ristabilire riguarda il senso della vita.

The Legend  esce dal cerchio ferito della sua nazione, ed esporta il mito.

Eastwood ha diretto films di una umanità intensa e di una sensibilità profonda, ponendo temi duri, ostici privati e sociali e se pure ci ha dato punti di vista poli-prospettici in pellicole quali The Flags of Our Fathers e Iwo Jima restringe qui l'occhio della sua telecamera e la prospettiva del film alla visuale circoscritta del mirino da cui Chris combatte la sua guerra.

E' attraverso quella visuale che Kyle individua le sue vittime, il suo colpo non partirà se non dopo individuali sofferte decisioni, i suoi primi nemici uccisi saranno un bambino e sua madre che tentano di colpire una postazione statunitense.

 La guerra del protagonistadi Kyle è ripetitiva, giorno dopo giorno, come un'operaio infila bulloni nella catena di montaggio fordiana, lui preme il grilletto e infila proiettili in corpi umani, e seppure lo fa con discernimento, l'alienazione finirà per scalfire anche la sua convinzione.

Non è un film a favore della guerra e non mi sembra grondi patriottismo come alcuni hanno rilevato, l'assurdità della guerra è presente nei detriti sminuzzati delle abitazioni irachene, nella polvere delle macerie che ricopre tutto e rende monocolore un mondo intero e i suoi abitanti. C'è un contrasto imbarazzante tra quel colore e il verde del Texas, il verde dei prati delle case ordinate dove bambini felici giocano e non hanno granate nascoste sotto i vestiti. Ma la sabbia è fine, sottile e si insinua anche nella mente dei soldati americani e profanerà il verde di quei prati quando torneranno a casa e anche quando non torneranno più inariderà la vita in quelle case ordinate.

Sarà proprio una tempesta di sabbia dalle proporzioni apocalittiche ( grandioso effetto scenico) che segnerà il momento finale dell'esperienza di Chris in Iraq. La sabbia renderà tutto confuso e indistinguibile ma non prima che Kyle abbia ucciso con un tiro incredibile il suo alter ego, il cecchino iracheno che come lui protegge dall'alto dei tetti i suoi compagni di guerra. La pallottola a rallenty supererà una distanza enorme fino a colpire il bersaglio e simbolicamente ucciderà anche Chris stesso come cecchino, tornerà a casa per rimanerci, ma la guerra se la porterà dietro e se la ritroverà nell'ordinato Texas, in quei reduci che non riescono a fare "pace" con l'orrore che hanno vissuto.


 Kyle, dopo un primo momento di smarrimento riuscirà a tornare a essere marito e padre affettuoso a rientrare nella normalità della vita, il senso della sua missione è così radicato in lui che a dialogo con uno psicanalista ammetterà di non avere sensi di colpa, di aver fatto ciò che doveva e convertirà il suo ruolo di soldato in quello di assistenza ai reduci con problemi di reinserimento nella quotidianità.
Sarà uno di loro ad ucciderlo, è in corso in questi giorni il processo a suo carico.
The Leggend morirà in suolo americano colpito da fuoco amico, in un  finale che ha del  grottesco se non fosse drammaticamente vero. La guerra, una volta che l'hai fatta, ti rimane addosso.



 Come epilogo di quanto detto sin qui, seppure è da tenere conto che il punto di partenza del film è quello soggettivo di un soldato e quello che racconta è la "sua" guerra, salta agli occhi che la descrizione delle parti in campo pecca di obiettività storica; gli americani erano in Iraq come forza di occupazione, gli iracheni difendevano il loro territorio e la loro vita, il gioco delle parti si inverte automaticamente: i lupi sono gli americani, le pecore la popolazione civile, i cani pastore quelli che le difendono; il terrore che tra le macerie si vive è quello dei bombardamenti continui, della paura che da un momento all'altro soldati con mitra in mano sfondino la tua porta di casa, che uccidano te e la tua famiglia o che la prelevino per portarla in luoghi di sofferenza; la condotta degli americani risulta sempre corretta e ponderata, per quanto in una situazione di guerra lo possa essere, mentre quella degli iracheni feroce e crudele, il punto di non ritorno di questo squilibrio è proprio nella scena in cui un bambino, per ritorsione, viene ucciso in un modo orrendo da un personaggio della guerriglia irachena. Per quanto possa essere vero, e lo sarà purtroppo, non può essere lasciata lì senza che venga raccontata anche la ferocia degli americani, anche se Chris nella sua biografia non ne fa menzione, e non perchè questo giustifichi in qualche modo quell'orribile gesto ma per un senso di onestà storica, che possa dare allo spettatore una visione più giusta di quello di cui si racconta. Nulla scalfisce la coscienza dei soldati americani nel film se non incidentali segni di cedimento da parte di un soldato che poi morirà e da parte dello stesso fratello di Chris di cui poi non ci è dato sapere più nulla. 
Si avverte, insomma, alla fine del film una necessità di giustizia che ristabilisca la verità dei fatti al di là della guerra personale che viene narrata. 
 Clint ha diretto un bel film, ma la sua attenzione alla fragilità umana, alla sofferenze dell'essere e del vivere, si è offuscata nel raccontare una leggenda.