giovedì 8 dicembre 2011

Punto Omega di Don DeLillo


Se il titolo di un libro in qualche modo ha il compito di sintetizzare o di mettere in risalto il o uno dei fulcri narrativi o significanti prenderò proprio il titolo per iniziare questo mio commento al libro di DeLillo, commento scritto, come al solito, senza alcuna velleità di critica letteraria ma solo con l’intento di raggiungere una maggiore comprensione di quello che il libro cerca di comunicarci o forse perché, citando uno dei personaggi : "E' tutto incastrato, le ore e i minuti, parole e numeri ovunque, le stazioni ferroviarie, gli itinerari degli autobus, i tassametri, le telecamere di sorveglianza. Tutto ruota intorno al tempo, tempo cretino, tempo inferiore, la gente che controlla l'orologio e altri aggeggi, altri sistemi che aiutano a ricordare. E' il tempo che scorre via lentissimamente dalla nostra vita. Le città sono state costruite per misurare il tempo, per togliere tempo alla natura. C'è un eterno conto alla rovescia. Quando hai strappato via tutte le superfici, quando guardi sotto, ciò che resta è il terrore. E' questo che la letteratura vuole curare. Il poema epico, la favola prima di andare a letto."

Punto Omega è una locuzione dello scienziato ( da wikipedia) “gesuita francese Pierre Teilhard de Chardin per descrivere il massimo livello di complessità e di coscienza verso il quale sembra che l'universo tenda nella sua evoluzione. Nel libro Il fenomeno umano (Le Phénomène Humain, 1955), Teilhard de Chardin descrive i cinque attributi del Punto Omega:
  • è sempre esistito - solo in questo modo si può spiegare l'evoluzione dell'universo verso livelli elevati di coscienza
  • deve essere personale – un essere intellettuale e non un'idea astratta; la maggiore complessità della materia non ha solo portato a più elevate forme di coscienza, ma ad una maggiore personalizzazione, della quale gli esseri umani sono le forme più elevate di “personalizzazione” dell'universo. Essi sono completamente “individualizzati”, liberi centri di attività. È in questo senso che si dice che l'uomo è stato fatto a immagine di Dio, il quale è la più elevata forma di personalità. Teilhard de Chardin sostiene espressamente che il Punto Omega, quando l'universo attraverso l'unificazione diventerà Uno, non si assisterà all'eliminazione delle persone, ma alla super-personalizzazione di esse. La personalità sarà infinitamente più ricca. Ciò perché il Punto Omega unisce il creato, e più esso unisce, più l'universo diventa complesso e accresce la propria coscienza. Così come Dio crea, l'universo si evolve verso più elevate forme di complessità, coscienza e, infine, con gli esseri umani, di personalità perché Dio, attraendo l'universo verso di Sé, è una Persona.
  • deve essere trascendente – il Punto Omega non costituisce il risultato della complessità e della coscienza. Esso esiste prima dell'evoluzione dell'universo, perché il Punto Omega è la causa dell'evolvere dell'universo verso la maggiore complessità, coscienza e personalità. Ciò essenzialmente significa che il Punto Omega si trova all'esterno del contesto in cui si evolve l'universo, perché è a causa della sua attrazione magnetica che l'universo tende ad esso.
  • deve essere autonomo – libero da limitazioni di spazio e di tempo.
  • deve essere irreversibile – cioè deve offrire la possibilità di essere raggiunto.”

Premesso questo, la trama ((In una casa isolata nel deserto due uomini discutono della natura del tempo e del significato dell'agire umano nella storia. Discutono e aspettano. Uno, Richard Elster, è un anziano intellettuale per niente pentito dell'appoggio che ha dato al governo nella guerra in Iraq, l'altro è un giovane regista che vorrebbe girare un documentario su di lui. L'improvvisa scomparsa della figlia di Elster, che è andata a raggiungerli altera lo stato delle cose..) è scarna quanto basta a realizzare lo scopo narrativo e contenutistico dell’autore. Due capitoli incorniciano gli eventi della narrazione: in un museo viene proiettato, dilatato in 24 ore, il film di Hitchcock, Psyco. Un uomo, quasi ossessivamente, lo guarda per ore, per giorni, il rallenty esasperato rende visibili i minimi particolari e i movimenti che avvengono durante le scene  “Ciascuna azione veniva scomposta in parti così distinte dall’entità originaria che l’osservatore si ritrovava scollegato da qualsiasi aspettativa” e da qualsiasi percezione del tempo come normalmente viene calcolato, dal suo concetto abitualmente accettato; i suoi pensieri si perdono nel film ed il film entra nella sua mente, la seziona come i frame sono sezionati nei più piccoli cambiamenti e lo porta ad una percezione profonda fino ad arrivare alla sua coscienza, superando la percezione superficiale delle cose.

All’interno di quella sala di proiezione passano tutti i protagonisti del libro e forse lo stesso spettatore potrebbe essere proprio l’autore di fronte a cui passano, mentre lui è in cerca di una essenza al di fuori del tempo e dello spazio, difficile da raggiungere, difficile da ridurre a parole “ La vita vera non si può ridurre a parole dette o scritte, nessuno può farlo, mai. La vita vera si svolge quando siamo soli, quando pensiamo. Percepiamo, persi nei ricordi, trasognati eppure presenti a noi stessi, gli istanti submicroscopici…….diventiamo quello che siamo sotto i pensieri che scorrono e le immagini indistinte, chiedendoci oziosamente quando moriremo: E’ così che viviamo e pensiamo, anche se non sempre ce ne rendiamo conto. Sono questi i pensieri che ci arrivano senza filtro, mentre guardiamo fuori dal finestrino del treno, macchioline opache di panico meditativo” .

Il significato di questa cornice al nucleo narrativo, la visione rallentata del film è forse legata alla coscienza di ognuno ( in particolare dell’autore) nel rivedere la vita in ogni suo suo momento, in ogni suo frame? il dispiegarsi particolareggiato di ogni azione compiuta connessa al pensiero che l’ha messa in atto? la consapevolezza di ogni piccolo particolare di quel pensiero che l’ha posta in essere?  e tutto ciò per arrivare  a..” quello che chiamiamo io, la vita vera, l’essere essenziale…”?
E tutto ciò è possibile solo al di fuori del convenzionale concetto spazio/ tempo della vita? Quella dimensione che Elster ricerca nel suo ritiro nel deserto,  dove :” La coscienza si accumula. Comincia a riflettere su se stessa. C’è qualcosa in tutto questo che mi sa quasi di matematico. C’è quasi una legge matematica o fisica che non abbiamo del tutto inquadrato, secondo la quale la mente trascende ogno direzione procedendo verso l’interno: Il punto omega. A prescindere dal senso originario di questa espressione, se un senso ce l’ha, se non è uno di quei casi in cui la lingua si sforza di arrivare ad una idea al di fuori della nostra esperienza”, dove non:”Siamo una folla, uno sciame.” Dove non:”Pensiamo in gruppi, viaggiamo in eserciti: Gli eserciti portano il gene dell’autodistruzione. Una bomba non è mai abbastanza: La confusione della tecnologia, è lì che gli oracoli tramano le loro guerre: Perché adesso arriva l’introversione. Padre Teilhard lo sapeva; il punto omega: Un salto fuori dalla nostra biologia…..Dobbiamo essere umani sempre? La coscienza è esaurita. Ora si ritorna alla materia inorganica. E’ questo che vogliamo. Vogliamo essere pietre in un campo.”
Il deserto,* è forse un altro personaggio del libro,  è il luogo ma anche  il tempo in cui si svolge la narrazione “C’erano le distanze che abbracciavano ogni caratteristica del paesaggio e c’era la forza del tempo biologico, lì, da qualche parte….calore, spazio, immobilità, distanza. Sono diventati stati mentali…sensazioni …oltre la dimensione fisica, sensazioni che si fanno più profonde col passare del tempo. Ecco l’altra parola: tempo.”
Il tempo si ferma nella casa del deserto, lo spazio non ha dimensione, il pensiero si perde e si concentra in essenza della mente….ma…l’uomo o semplicemente Elster non è ancora pronto per il punto omega, dice di lui la figlia “..odia completamente, fisicamente la solitudine” la biologia prende ancora il sopravvento, la sparizione della figlia lo prostra fino a scomparire nella completa apatia…in fondo “l’estinzione” è il tema che lega tutti i personaggi.

Il deserto inghiotte la figlia
Il film inghiotte l’anonimo personaggio
La città a cui torna inghiotte il regista
Il dolore inghiotte Elster

Io credo che questo libro più che comunicare qualcosa ai suoi lettori serva all’autore a segnare uno stadio del suo essere, non quello del raggiungimento del punto omega, ma quello della comprensione di cosa possa esso significare e quindi la tensione a raggiungerlo, come antidoto al terrore che resta quando si sono strappate tutte le superfici….e guardi sotto….
 In “Running dog” l’autore nel 1978 scriveva “Qualunque fosse l’obiettivo della ricerca, un oggetto, una situazione interiore, una risposta, uno stato dell’essere, il risultato era quasi sempre deludente. Alla fine ci si ritrova di fronte a se stessi. Soltanto a se stessi. Naturalmente c’era chi credeva che la ricerca fosse importante di per sé. Il fine della ricerca è la ricerca stessa.”
De Lillo sta ancora “ricercando”….."Ogni momento perduto è vita"

E’ un libro particolare, non riesco a parlarne senza citarlo spesso come ho fatto sopra,  difficile da commentare ma estremamente interessante e va al di là della letteratura, è un cuneo che si insinua nella mente, è un “sasso” che colpisce i pensieri e li scompiglia.
Da leggere e rileggere e tenere a portata di mano, di occhi e di mente.....

* del deserto, in genere, ho parlato in questo blog, qui

venerdì 16 settembre 2011

Una poesia americana

UNA POESIA È UNA CITTÀ


Una poesia è una città piena di strade e tombini
piena di santi, eroi, mendicanti, pazzi,
piena di banalità e roba da bere,
piena di pioggia e di tuono e di periodi
di siccità, una poesia è una città in guerra,
una poesia è una città che chiede a una pendola perché,
una poesia è una città che brucia,
una poesia è una città sotto le cannonate
le sue sale da barbiere piene di cinici ubriaconi,
una poesia è una città dove Dio cavalca nudo
per le strade come Lady Godiva,
dove i cani latrano di notte, e fanno scappare
la bandiera; una poesia è una città di poeti,
per lo più similissimi tra loro
e invidiosi e pieni di rancore...
una poesia è questa città adesso,
cinquanta miglia dal nulla,
le 9.09 del mattino,
il gusto di liquore e delle sigarette,
né poliziotti né innamorati che passeggiano per le strade,
questa poesia, questa città, che serra le sue porte,
barricata, quasi vuota,
luttuosa senza lacrime, invecchiata senza pietà,
i monti di roccia dura,
l'oceano come una fiamma di lavanda,
una luna priva di grandezza,
una musichetta da finestre rotte...

una poesia è una città, una poesia è una nazione,
una poesia è il mondo...

e ora metto questo sotto vetro
perché lo veda il pazzo direttore,
e la notte è altrove
e signore grigiastre stanno in fila,
un cane segue l'altro fino all'estuario,
le trombe annunciano la forca
mentre piccoli uomini vaneggiano di cose
che non possono fare.

Charles Bukowski

mercoledì 24 agosto 2011

Di nuovo on the road





Illinois, Kentucky e, velocemente, Indiana.


Chicago: bella città piena di vita, di architetture vecchie e nuove che si scontrano e che si amalgamano perfettamente a creare un unicum affascinante. Il suo Millenium Park è uno scoppio di vitalità e di originalità sia nelle forme strutturali che lo compongono, sia nell’umanità che lo anima.
 La città dell’acciaio, del grano, della carne, “the windy cidy” o anche “the second city” già alla fine dell’ottocento, rispetto a New York, la città dell’affarismo, dell’operatività, dello sfruttamento e del guadagno, della corruzione e del clientelismo….  Frank Lloyd Wright  ha lasciato un importante segno della sua vena architettonica per le sue strade.
Percorsi in strade eleganti lungo i quali puoi trovare la sosia di Tina Turner che canta, ballerini di tip tap, musicisti folk, percussionisti di secchi di plastica, saxofonisti etc. che animano il giro di shopping  di chi i soldi non è costretto a chiederli lungo la strada.

Il fantasma di Al… si aggira per le strade, le guide turistiche riportano i luoghi della sua “carriera”, ma del garage dove si consumò la strage di San Valentino non ho trovato traccia, il numero civico 2122 di N Clark St non esiste più…eppure ho cercato bene!!



Ma al Green Mill , locale diventato famoso per essere stato lo spaccio clandestino di alcolici preferito da Capone, ho potuto bere ed ascoltare buon jazz. In mezzo al locale c’è una specie di altarino con delle foto, in una c’era  proprio lui….

Lago Michigan….sembra proprio un mare, all’orizzonte solo acqua (anche dall’aereo per poterne vedere i limiti devi sorvolarlo in corrispondenza del suo centro). Sulle rive onde e spiagge. 

Historic Route 66: parte proprio da Chicago ed arriva a Santa Monica in California. Ne ho fatto solo una parte, per lo più ormai il tratto dell’Illinois scorre parallelo alla I-55 ma in alcuni punti se ne discosta ed è lì che è bello percorrerla attraversando luoghi che sono diventati “icone americane”. Aperta nel lontano 1926, fu la maggiore via di comunicazione di merci ed affari, ma anche della  migrazione durante la depressione ed  il dust bowl  e supportò l’economia delle comunità attraverso le quali passava.

In America è “La” strada, quella del sogno americano, quella della fuga dalla povertà, quella del superamento di frontiere reali e personali, quella della delusione e della sofferenza di chi vedeva infrangersi le proprie aspettative.
E’ la materializzazione della strada di Kerouac, il percorso del Furore di Steinbeck,  la cassa di risonanza delle ballate di Guthrie…e tutto quello che ciò ha rappresentato per gli americani e non solo….

Springfield, capitale gradevole e sorretta dal mito di Lincoln di cui si può visitare la casa da lui abitata fino al mandato presidenziale. Il presidente è presente in tutto l’Illinois che è definito, anche nelle targhe, la terra di Lincoln, targhe che lo ricordano si trovano sparse per tutto il suo territorio.


Saint Louis, l’Arco svetta, visibile anche da molto lontano, tipologia usuale della città americana, grattacieli in down town, piccole case, eleganti, più modeste, alcune antiche in old town, bei quartieri, Euclide street piena di localini e di gente, Cherokee street…deserta e piena di casa tipiche di mattoncini, locali dove ascoltare musica dal vivo la sera.

Poco distante dalla città il punto di incontro tra Missouri e Mississippi a nord ovest, e a est il sito archeologico più grande a nord del Messico, il Cahokia Mouds, dove si sviluppò una civiltà con una organizzazione ben precisa ed una città con circa 20.000 abitanti.

L’Illinois è una distesa di campi di granoturco, i paesaggi sono colorati di un verde intenso, quasi violento, foreste di alberi imponenti si alternano alle coltivazioni, strade quasi deserte, il senso di spazio immenso elettrizza, ma ci si rende anche conto di quanto possa sgomentare una pianura senza punti di riferimento per gli occhi, una incalcolabilità delle distanze….

Kentucky, terra di cavalli di razza, del bourbon, della bluegrass e del pollo fritto.
Il panorama cambia, più vario il viaggiare, rocce appaiono ai bordi delle strade ed emergono dal terreno, archi di rocce si trovano nei parchi, cascate e vecchie ferrovie.
Dopo un po’ che lo percorro qualcosa comincia a stonarmi…..non vedo nessun afroamericano, ne ho visto solo uno che si aggirava in un mercato all’aperto. Cerco di capire perché, ma non ci riesco. Certo che i personaggi che vi si aggirano sembrano tirati fuori da film americani: sono uomini rudi, grossi e….americani….! E' vero che subito dopo la fine della guerra di secessione, il KKK nacque in Tennessee a due passi da lì…ma non ho appigli che mi confermino un particolare razzismo di questo stato, sta di fatto che di neri ne ho visti tanti ed ovunque ma qui no! In una assolata distesa di asfalto si svolge un mercato dell’usato, ci sono banchetti che invece di pentole e padelle espongono una sfilata di fucili! Anche se so che siamo nella terra delle “armi a chiunque” fa strano una cosa del genere…..in un mall (che sta per market) sono esposti due fucili di antica data in uno c’è l’etichetta di provenienza Tennessee e poi la data 1867 e la sigla KKK!
Comunque sia ,dal punto di vista del territorio il Kentucky è un piacere per gli occhi.

Indiana, terra piatta che dal Kentucky si allunga fino al lago Michigan, ai bordi del quale ci sono dune di sabbia alte che ne modulano le spiagge; come dicevo l’ho attraversato velocemente e non ho potuto gustare appieno quelle che sembrano essere le sue particolarità.

Questo in sintesi il mio viaggio, sensazioni provate quelle solite di quando si viaggia in quella terra, un senso di libertà che è figlia del mito, dello spazio, della propria mente che si mette in fuga dalla quotidianità e che verifica direttamente le proprie curiosità, si sente in un luogo che per vari motivi l’affascina e che vuole conoscere per i motivi che ho già espresso altre volte qui sopra.

Riflessioni e domande tante: cosa c’è dietro il sorriso degli americani quasi sempre molto cordiali? Affettazione? Superficialità od una vera disposizione verso l’altro? E’ vero che dietro a quei sorrisi c’è la voglia di presentarsi sempre e comunque come coloro che hanno raggiunto la felicità sancita dalla costituzione, la positività di una nazione ostentata a tutti i costi?  Dietro a quanti di quei sorrisi si cela magari un razzismo feroce?  Sembra sempre tutto molto ordinato, il rispetto delle regole stradali, prati immensi bordo strada rasati perfettamente, sembrano tutti giardini di Paperino…strana cosa la natura, sembra quasi ostentata, incanalata ma non fruibile….se non quando viene istituzionalizzata in parchi; non trovi un albero fuori posto, magari per far ombra in un parcheggio…no…da un parte i paesi …da una parte la natura….e poi quelle case immerse in essa ma fuori dalle concentrazioni in qualche modo strutturate di centri abitati, centri commerciali….etc…
Dopo un po’ che viaggi e ti capita di vedere campi “selvaggi” con le margheritine che occhieggiano tiri un sospiro di sollievo, anche se di primo acchito tutto quell’ordine verdeggiante ti aveva dato un senso di benessere visivo.
Negli states si viaggia bene in macchina, in primis perché lo spazio è talmente tanto che il traffico lo si incontra solo in prossimità delle grandi città e lì è snervante, per il resto è tutto molto tranquillo e gli statunitensi rispettosi delle regole….ma se siete in prossimità di un incrocio con una visuale a 360 gradi e di fronte a voi c’è uno stop…vi sembra intelligente fermarvi se è evidentissimo che non ci sono macchine in arrivo per decine di miglia?

..e ancora vi sembra normale che nelle strade delle cittadine ci passino le rotaie dei treni?  E sopra di esse treni veri, quelli merci con più di cento carrozze….e tu sei lì ad un incrocio, niente semaforo, niente passaggio a livello ed aspetti una buona quantità di minuti che il treno, lentissimo, passi, ed il solo modo che hai di sapere che devi fermarti è lo strombazzamento del treno stesso che da così avviso del suo arrivo!?

Vedi delle cose in America che a noi europei ricordano i cartoni animati o comunque i fumetti…la mia amica di viaggio sostiene che Walt Disney non si è inventato niente ha solo copiato la realtà, o la realtà ha copiato i fumetti da un certo punto in poi…? dico io.

Vedi delle moto in America e 8 su 10 sono Harley Davidson...

Un ‘altra cosa che si nota è che certe cose sono ferme ai mitici anni’50…la grafica dei cartelli che sulla strada pubblicizzano hotel ed altro….le insegne….l’oggettistica pubblicitaria….c’è una reiterazione continua dell’iconografia di quel periodo…..





Beh ora la smetto…queste alcune delle mie impressioni…ci tornerò prima o poi, ho degli itinerari che ancora non ho fatto…le Black Hills, le Bad Lands…i deserti dell’ovest….ed altro….


mercoledì 8 giugno 2011

The Tree of Life di Malick




Film complesso e stilisticamente eterogeneo, difficile o troppo facile da interpretare che lascia il dubbio se quello che comunica sia ermeticamente espresso o solo veicolato in forme stilistiche che ricercano un linguaggio poetico meno diretto, più evanescente e, quindi, di più difficile comprensione.
Il film, se non ha contenuti nascosti in simbolismi da stanare a cura di spettatori più esperti e competenti di me, parla della vita e degli interrogativi che da sempre l’uomo si è posto e a cui non è riuscito a dare risposta se non inventando un’entità sopranaturale da cui tutto dipende, o un inserimento cosciente nella natura e nei suoi ritmi, sentendosi partecipe di un esistenza ciclica di cui è una particella che lì trova il suo scopo di esistenza. Ma spesso questo non basta perché la vita ti pone di fronte dolori per i quali non si trovano ragioni.

L’ambiente è quello di una tipica famiglia americana degli anni ’50, una madre affettuosa, un padre padrone (poi pentito) tutto proiettato sul lavoro e la crescita sociale ma dalla sensibilità artistica, e tre bambini. In un tempo non descritto, nella sequenza storica della famiglia, uno dei figli muore, quello che noi vediamo è un periodo precedente al doloroso evento ed uno successivo imperniato sulla figura del figlio maggiore che ripercorre e ripensa alla sua infanzia, alla sua vita, ai suoi affetti famigliari, che cerca di comprendere quello che ha vissuto e di capire le persone che di quel vissuto hanno fatto parte, i membri della sua famiglia non solo nel loro ruolo di  genitori, figli, fratelli, ma anche come semplici persone.

È come se lui agitasse una bottiglia, dentro tutta la sua vita che si stratifica, che si mescola  in un attimo, è tutta lì a rappresentarlo, come se il tempo, nel momento del ricordo del ripensamento, non avesse dimensione e tutto si concentrasse in un unicum, da cui di volta in volta un episodio, una persona si intravedono con maggior evidenza ed escon fuori. Dal regista questo concetto è reso, almeno a mio avviso, con un immagine molto simile ad una del film di Eastwood Hereafter, quella in cui in un luogo non identificabile il protagonista rivede le persone a lui care ed anche se stesso in vari stadi della vita fluttuare in una dimensione non riconoscibile, ( nel film di  Eastwood le persone erano solo quelle oramai non più in vita).

Nel film ci sono espedienti stilistici che il regista usa per inserire nella semplice narrazione elementi che la superano, quali le voci fuori campo ( già molto usate nel film La sottile linea rossa  quasi ad imitare un monologo interiore filmico) che, se pure si intuisce da quali personaggi possano provenire, rivolgono domande universali e per lo più rievocano il conosciuto grido di dolore “ dio perché mi hai abbandonato”, ed immagini fantasmagoriche e d’effetto sull’universo e la nascita di esso, che, oltre a ricordare “2001 Odissea nello spazio”, sono di carattere quasi documentaristico.
 Anche questi espedienti sottolineano la dualità di scelta, enunciata ad inizio film, tra natura e religione, tra stato di grazia e scienza, nel percorrere la propria vita; il regista a parer mio non da risposta, non fa scelte tra queste due opzioni, solo si e ci interroga sul perché la vita a volte ci ponga di fronte a dolori quasi insopportabili e sul dove trovare il conforto necessario a continuare.

Molte le cose ancora da dire ma che ora mi sfuggono, quale per esempio il perché del titolo, L’albero della vita, che sicuramente rimanda alla natura ma forse anche metaforicamente alla linfa vitale che lo stato di grazia può dare all’esistenza; o il significato del deserto come luogo simbolico (forse posso rimandare al mio posto sulla Monument Valley a questo proposito); oppure che la nota stonata del film forse sono le immagini da Jurassic Park che ad un certo punto vengono inserite.

Al di là del significato palese o nascosto del film, la cosa che lo rende “un film da vedere” è il suo valore estetico, l’alternarsi di immagini reali e surreali, scientifiche e spirituali, il velo armonioso che le lega e ne fa forse se non una poesia uno spleen, invece che di parole, di immagini.

domenica 15 maggio 2011

La libertà di Franzen



Non amo molto la narrativa minuziosa nella descrizione degli avvenimenti che accadono e degli sviluppi emozionali dei protagonisti che li abitano, mi piace di più il non detto ma lasciato intuire, la sospensione, l’accordo non risolto che lascia vagare la mente nella propria emotività, nell’istintività di comprensione, nello sforzo intellettuale dello scoprire quello che si legge, preferisco che con una frase si accenni piuttosto che sviscerare completamente il pensiero che si vuole esprimere, preferisco avere quel momento in cui alzando gli occhi dal libro lo percepisco.
Il libro di Franzen quindi non mi piace molto, mi interessa ma non mi convince nella sua interezza di opera artistica narrativa.
Mi interessa però appunto quello che in tante pagine ci vuole comunicare. Non credo come molti hanno detto, che sia un capolavoro, né che sia il grande Romanzo Americano, non ravvisando al suo interno quelle specificità che lo possano far leggere come tale, un‘originalità, insomma, rispetto alla produzione letteraria americana; non è presente una particolare chiave di lettura nel descrivere un nucleo familiare che cerca di vivere all’interno di quella determinata società, non ha i connotati di eccezionalità letteraria, ma, anzi, una modalità di narrazione già letta e, per di più, troppo particolareggiata.
Tema e titolo del libro la “Libertà”, parola chiave nella costruzione della società americana anzi “la” parola di approccio ad essa, su di lei si è costruita l’America e sulle contraddizioni che la realizzazione pratica del concetto di cui è espressione ha messo in essere.
La libertà è quella con cui i suoi abitanti autoctoni attraversavano quel grande paese, la libertà dallo sfruttamento insensato di quello che avevano a portata di mano e quella della possibilità di goderne in armonia con esso; la libertà che pensavano di ottenere coloro che scappavano dalle oppressioni politiche, religiose, sociali del vecchio continente; la libertà che uno spazio così grande faceva sentire a chi lo attraversava per la prima volta.
Libertà che è stata poi assunta come motore di azione di un intera nazione nei rapporti interni ed esterni, nell’agire dei singoli individui e dello stato, senza che se ne fosse elaborata una modalità di esercizio che riuscisse a tener conto delle mille libertà concrete e non solo di un concetto astratto e demagogicamente usato per esercitare un potere senza vicoli.
Libertà che si è concretizzata, sin dagli albori della formazione dell’America, nello sfruttamento da parte di pochi delle molte risorse sia materiali che umane, nel convincimento che per mettere in atto le proprie libertà si potesse esercitare la schiavitù in varie forme, che il proprio destino fosse quello di condizionare il mondo intero per garantirsi la libertà di agire a proprio piacimento ed interesse.
Ma seppur  il libro di Franzen rimanda ad un concetto generale di libertà all’interno della società americana, ne fa sopratutto, a mio avviso, un problema individuale dei singoli personaggi.
Quali i limiti che, nella presa di coscienza di se stessi e del mondo circostante, sia a livello sociale che individuale, chiunque deve imporsi nell’esercizio della sua libertà?  E come nella ricerca della felicità, sancita peraltro dalla stessa Costituzione americana, si può esercitare questa libertà?
La risposta che mi viene da dare dopo la lettura del libro di Franzen, è che lui sposta il problema dal livello generale ad uno propriamente individuale, la libertà che ci può permettere di vivere in armonia con l’altro è la libertà da se stessi, dai propri incastri mentali che si formano per indole strettamente personale e per come le vicende familiari e sociali le modellano e le sviluppano.
La libertà di essere felici insieme agli altri comporta una presa di coscienza di quello che si può dare, di quello che si vuole avere e di quello a cui si può rinunciare, un sforzo nel tentativo di conoscersi, di riconoscere i propri errori, e di comprendere le necessità degli altri per capire se possano essere accettate come condivisibili, unico limite invalicabile è quel nucleo di se stessi senza il quale non ci riconosceremmo più.
Tutto ciò è possibile solo quando tutto ciò viene realizzato su una base di autenticità e verità, giocando a carte scoperte, sia le proprie che quelle dell’avversario/ amante/ figlio/ amico/ compagno/genitore etc etc…..
e non è facile…….e riguarda non solo la libertà ma anche la capacità di vivere.

per saperne di più: qui

lunedì 2 maggio 2011

Il nostro caro Billy



Il caro Billy muore ed il romanzo inizia nel bar dove gli amici ed i parenti si riuniscono per mangiare dopo il funerale. Da lì inizia la narrazione della vita di Billy e di coloro che a lui, in qualche modo, sono stati vicini e con cui  ha condiviso gli anni della sua esistenza. Entusiasmi, dolori, quotidianità, giovinezza e tempo che passa fluiscono nella narrazione con eleganza e delicatezza. Leggendolo mi è venuto in mente un grande film, C'era una volta in America, non per assonanza degli eventi nè per il periodo storico in cui si svolgono, ma per il senso di nostalgia e malinconia di cui sono pervasi entrambi e per i continui flashback che si intrecciamo nella costruzione della trama narrativa.
Lo spazio temporale va dall'ultimo dopo guerra fino alle soglie del nuovo millennio ed i luoghi interessati sono essenzialmente New York, in particolare Coney Island, e l'Irlanda da dove sono emigrati nel tempo le famiglie ed i personaggi che animano la narrazione e che risultano lontani dalle forti contraddizioni all'interno della famiglia e della società statunitense che contradistinguono, in buona parte, la letteratura americana degli ultimi decenni.

E' un bel libro che parlandoci della vita dei personaggi fa pensare alla propria, affronta il dolore per la morte di una persona cara in modo semplice e realistico, senza sfociare nel semplicismo o nella banalità, ci racconta degli immutabili riti e delle reiterate parole che in questi casi si compiono e si dicono, delle consolazioni religiose e non che in questi casi vengono proposte, ma quello che rimane è il dolore personale ed intimo, incomunicabile ma conosciuto da ciascuno di noi.

E' un libro sul ricordo, sulla vita che va avanti, sugli eventi che si susseguono e che delineano l'esistenza nel suo sviluppo e sugli intrecci personali che si creano al suo interno, tira fuori i pregi e i difetti dei personaggi accentadoli entrambi come le due facce di una medaglia, una medaglia che ha comunque un suo valore.

Un romanzo profondamente umano nell'accezione più "calda" del termine, senza ombra di retorica o di sentimentalismo, in cui anche l'inevitabile ripetività degli eventi e le modalità di reazione agli stessi nella vita di tutti non perdono per questo di spessore e di partecipazione.

I riferimenti al libro li potete trovare qui.

sabato 16 aprile 2011

Monument Valley



C’è una parte del territorio nord americano che mi affascina più di altri, tanto che al suo pensiero si insinua in me una ingiustificata nostalgia, ingiustificata perché nulla della mia vita è legato a quei territori, neanche andando a ritroso nella storia della mia famiglia.
Questi luoghi sono i “deserti americani” ed in particolar modo la Monument Valley, ormai divenuta, tramite le immagini dei film western e non solo, icona di una morfologia che trascende la materialità e si fa simbolo di atemporaneità.

Ha il paesaggio una potenza che ammutolisce, i monoliti di arenaria scolpiti dal vento, dall’acqua , dal ghiaccio, sembrano quasi, nelle loro forme, fatti ad arte ma testimoniano soltanto il lavorio del tempo, della natura, l’uomo ne è completamente estraneo. Si ergono isolati a punteggiare la valle come tappe di un cammino ancestrale, come giganti immobili a testimoniare una essenzialità da cui rifuggiamo nella gestione della vita; dolori e gioie scompaiono, rimane l’essere scarnificato da ogni orpello culturale ed emozionale di fronte all’indefinibilità del tempo.

”Quel che intorpidisce i sensi, lo spirito, e ogni sentimento di appartenenza alla specie umana, è il fatto di avere davanti a sé il segno puro, inalterato, di centottantamilioni di anni, e dunque l’enigma spietato della vostra stessa esistenza”…..” Il deserto è un’estensione naturale del silenzio interiore del corpo. Se il linguaggio, le tecniche, gli edifici dell’uomo sono un’estensione delle sue capacità costruttive, solo il deserto è un’estensione della sua capacità di assenza, lo schema ideale della sparizione della sua forma.”

La solitudine si concretizza nell’isolata immanenza delle rocce dalle forme bizzarre, parlano esse col linguaggio del silenzio, fatto di segni percepibili dalla propria interiorità ma non comprensibili dalla mente razionale. La solitudine non è più captata come uno stato d’animo, positivo o negativo, ma come un assoluto, se questa sensazione potesse trasmettersi al corpo e polverizzarlo come materia, si potrebbe all’infinito essere senza esistere, compenetrandosi nello spazio e nel tempo come essenza ed entrare nel nulla e nel tutto.

Il luogo sprigiona una presenza magica che va al di là della natura che rappresenta e affonda le sue radici nell’essenza della vita che raramente riusciamo a percepire, ma lì la intuiamo e ci lascia attoniti ed indifesi, perdiamo la nostra corporeità e ci facciamo spirito anche se il nostro spirito è monco della capacità di sentire la magia, capacità persa nel corso di secoli e nell’accumularsi delle nostre culture. Forse solo le popolazioni indigene erano riuscite a convivere e comprendere la grandiosità di quei luoghi, a trovare la giusta dimensione del vivere all’interno di una natura così estrema e selvaggia. Ma noi li abbiamo distrutti, fisicamente e mentalmente, rifiutando tutti i messaggi e le conoscenze che potevano trasmetterci.

“ Monument Valley è la geologia della terra, è il mausoleo degli indiani, ed è la cinepresa di John Ford.
E’ l’erosione, lo sterminio, ma è anche la carrellata e l’audiovisione. Tutti e tre sono mescolati nella visione che ne abbiamo. E ogni fase mette fine, in modo sottile, alla precedente. Lo sterminio degli indiani mette fine al ritmo cosmologico naturale di quei paesaggi a cui fu legata per millenni la loro esistenza. Con la civiltà dei pionieri, a un processo estremamente lento, se ne sostituisce uno molto più rapido. Ma anche questo è stato soppiantato, cinquant’anni più tardi, dalla carrellata cinematografica, che accelera ulteriormente il processo e in un certo senso mette fine alla sparizione degli indiani, riducendoli a comparse. Questo paesaggio è così depositario di tutti gli eventi geologici e antropologici, fino ai più recenti. Di qui la scenografia straordinaria dei deserti dell’Ovest, che associano il geroglifico più ancestrale, la luminosità più vivida e la superficialità più totale.”

Un luogo, una persona possono essere fagocitati dai media, ma per chi ne riconosce la specificità, la particolarità saranno sempre emblema di qualcosa,  e quella persona saprà ritrovarci, allontanando
tutte le mistificazioni fatte, un luogo o un pensiero che è parte di se stesso.

Le frasi virgolettate sono tratte da “America” di Jean Baudrillard ed. SE, sicuramente ci troverete dentro molto di più e detto molto meglio di quello che ho sopra scritto io ed anche altro.


lunedì 11 aprile 2011

James Lee Burke

James Lee Burke scrive essenzialmente noir, ma non solo, suo é, per esempio, "Two for texas", ambientato nel 1836, anno della famosa disfatta di Alamo; al suo interno si trovano storie di schiavitù, di repressione carceraria, di razzismo, di personali percorsi di vita che si vanno ad intrecciare con la Storia americana, in una delle più celebrate pagine di "eroismo" statunitense, compiutasi durante la dilagante, inarrestabile, violenta e sanguinaria occupazione delle terre che compogono gli attuali territori statunitensi.

L'autore nei suoi libri racconta il profondo sud, la sua natura,
i personaggi ambigui che le si muovono all'interno, le storie dure e crudeli che vi si svolgono.

I suoi romanzi noir, con un personaggio seriale, si svolgono in Louisiana la cui natura è presente, tortuosa, umida, fitta di vegetazione e incornicia benissimo gli eventi.

Vecchie storie di schiavismo, di razzismo che
continuano a macchiare le vite degli abitanti di un piccolo posto
vicino a New Orleans....il passato non si può dimenticare anche quando
lo si ignora, anche se chi orchestra tutto rimane impunito perchè
facente parte della classe ricca, potente, politicamente protetta.
Tutto è rallentato, segue il ritmo dei bayou, dell'acqua lenta ed
inesorabile che si muove nei piccoli dedali paludosi che frastagliano il
Missisipi in prossimità della sua foce.
La narrazione, tesa alla risoluzione di eventi criminosi, ci dice molto di più degli eventi che si susseguono, affonda nell'animo dei personaggi e svela le verità più scomode.



venerdì 11 marzo 2011

un gelido inverno

Nel primo post di questo blog faccio un resoconto, che ho definito poco ortodosso,  del mio ultimo viaggio negli States, e lì menziono quelle case che compongono dei piccoli agglomerati che si trovano ovunque lungo le strade, lungo quell'immenso territorio che si attraversa, in modo retorico e ormai  mitico, "on the road".

 E quando le vedi quelle case, per lo più poco decorose con quel mucchio di cose

fuori, rottami di macchinari, giocattoli rotti e sani, mobili e pezzi di mobili ed una quantità di stranezze inverosimili, ti chedi chi ci possa abitare, e come possano vivere le persone in una situazione del genere, lontani da tutto, da tutti....quali i rapporti sociali che animano le loro vite, quali i coinvolgimenti personali e relazionali che si instaurano in quei posti. Certo rimanendo on the road and "on the car" non lo si scoprirà mai. Esistono, però, viaggi di diverso tipo e quelli che permettono una conoscenza più diretta delle realtà sociali richiedono molto tempo, forse anche più coraggio, sicuramente una conoscenza più approfondita della lingua parlata nei luoghi che si attraversano e tutta una serie di cose che tramutano il viaggio in qualcosa di diverso e più coinvolgente e sono i viaggi più belli, più veri ma presuppongono una vita strutturata in modo diverso, più libera, meno condizionata dalle varie routine tipiche ...lavoro, famiglia e via dicendo...e sono i viaggi che vorrei..quelli in cui non solo i paesaggi naturali ti assorbono ma tu stesso metti le mani in pasta nella vita degli altri.

"Un gelido inverno" di Debra Granik ti apre le porte di quegli agglomerati, di quelle case, di quelle vite; all'inizio del film mi è sembrato di aver fermato la macchina, di esserne finalmente scesa e di essere entrata a vedere cosa le immagini viste dalla strada contenevano di vita vissuta.
Il film, con uno stile asciutto ed efficace, descrive l'umanità che anima quei luoghi, il degrado di vite vissute di espedienti, barcamenandosi per tirare su il necassario per vivere, illegalità più o meno gravi, leggi claniche e familiari che proteggono gli appartenenti e che prevedono anche la pena di morte, da parte del clan, per chi non le rispetta. Un mondo di sopravvivenza crudele e spietato in cui chi sgarra le convenzioni comportamentali in esso insite non viene perdonato.

Ma per quanto le persone siano abbrutite dal vivere in questo modo esiste in loro e tra di loro, un nucleo di riconoscimento che, seppur alterato dalla violenza, ha un fondo di pietas umana, che alla fine, anche se in modo atipico secondo i normali canoni, riesce a rendere giustizia ed onore al coraggio di un adolescente che di quella comunità fa parte senza esserne invischiata personalmente, e che agisce a difesa di se stessa e della propria famiglia con le sole armi della sua forza interiore e con una durezza che proprio quel mondo in cui vive le ha plasmato addosso.

Nel film il freddo dell'inverno si fa simbolo della mancanza del calore umano che lenisce i dolori dell'esistenza; l'ambiente naturale ingloba dentro di sè i destini umani nell'isolamento del grande spazio che li circonda, la società civile, quella riconosciuta è fuori, oltre, e più che essere elemento di salvezza, è una minaccia per le persone e la natura che rischiano di soccombere alle sue leggi di profitto e normalizzazione.

Personalmente ho apprezzato ancora di più questo film perchè girato da una donna che ha saputo cogliere in modo diretto, essenziale e scarno, senza ombra alcuna di moralismo o pietismo verso tutti i personaggi sia maschili che femminili, una tematica già sfruttata nella cinematografia ma sopratutto da uomini, e l'ha fatto in modo egregio, ed è anche una donna, giovanissima, la protagonista principale, che affronta una discesa agli inferi per cercare salvezza non per l'intera esistenza ma per una immediata possibilità di sopravvivenza dignitosamente umana.