sabato 25 gennaio 2014

"Il capitale umano" dall'America all'Italia attraverso Virzì




Il Capitale umano è un film il cui spunto di riflessione é posto, come episodio, all’inizio del film e come conclusione annotativa alla fine, in mezzo sono i singoli personaggi a essere nuclei narrativi, uniti tra di loro da interconnessioni socio-economiche.

Si svolge in un ricco paese della Brianza, ville sontuose proteggono ricchi finanzieri,  villette spocchiose ne fanno da corte medievale, il degrado culturale è rappresentato dall’abbandono dell’unico teatro presente; è tratto da un romanzo, con lo stesso titolo, dell’americano Stephen Amidon le cui ambientazioni, naturalmente, sono negli USA e precisamente nel Connecticut, dando alle problematiche sociali e umane del film una connotazione più ampia e “globalizzata”:  il sogno americano ha travalicato l’oceano e ha inquinato il resto del mondo.

L’intreccio del film, articolato in parti che si sovrappongono l’una all'altra nella tensione di svelare la dinamica dell’accadimento iniziale, ci mostra un’umanità diversificata nei singoli protagonisti che, con ruoli e atteggiamenti diversi, vengono travolti da un sistema sociale basato sul consumismo, sulla ricchezza ottenuta  con la frode fiscale,  sulla monetizzazione dei desideri e delle aspettative delle persone, sulla secondarietà di valori quali la comprensione, l’onestà pubblica e privata, la solidarietà tra individui, sulla impossibilità di realizzazione personale al di fuori di schemi opportunistici  falsamente individuati come i soli possibili da un sistema educativo e culturale che ha perso cognizione dei valori della vita e della convivenza.

La “famiglia ricca”:
Il riccone, manipolatore finanziario di patrimoni e vite altrui, cinico, privo di empatia, di senso civico e di umanità, profittatore di ingenuità altrui per il suo unico tornaconto, gestisce la sua vita e la sua famiglia senza partecipazione ma elargendo frivolo benessere materiale.

La moglie, ex attrice, sembra fluttuare nella ricchezza inconsapevole di se stessa, insoddisfatta, incapace di vera autonomia, prigioniera della sua gabbia dorata, triste senza quasi sapere il perché.

Il figlio, adolescente potenziale alcolista, combattuto tra l’emulazione e la fuga, vive trangugiando alcool e trasudando rabbia, cercando affetto e comprensione al posto di soldi e indifferenza, ricercando un senso che riempia il vuoto esistenziale non solo presente ma anche  futuro.

La “famiglia media”:
L’immobiliarista, goffo nella sua ingenua sudditanza mentale al potere della ricchezza, si gioca tutto pur di entrare in quell'ambiente da cui, una volta dissanguato di contante, viene mal sopportato e trattato con sgarbo e sufficienza. Si ritrova ad avere il coltello dalla parte del manico nel momento drammatico e la doppiezza del personaggio si concretizza bizzarramente in una vigliaccata che ha comunque un onestà di fondo,  in un certo senso ristabilisce la realtà dei fatti e risana, anche se illegalmente, il torto subito senza richiedere nulla di più di quello che gli sarebbe spettato.

La moglie lavora nel sociale, sembra essere l’unica ad avere una vita veramente positiva, forse non felice ma con una buona dose di serenità, in pace con la propria coscienza e con se stessa; dà e riceve affetto e comprensione, si pone al di fuori dell’ingranaggio potere-ricchezza, gratifica ed è gratificata dai rapporti umani e dalla sua tardiva gravidanza, riuscendo a stabilire un rapporto empatico di affetto e complicità con la figlia del marito.

La figlia, adolescente in bilico sulla “linea d’ombra”, rifiuta un mondo di meschinità e falsi valori, capace di riconoscere l’autenticità delle persone, va al di là delle convenzioni e regole sociali pur di prendersi cura delle debolezze e fragilità di chi ama.

La “mezza famiglia”:
Zio e nipote  convivono, il loro ambiente è borderline, il primo è un piccolo malavitoso, il secondo un ragazzo che sconta drammaticamente i disagi  della marginalità che la vita gli ha riservato e, come spesso accade in questi casi, si ritrova vittima di un vortice che non gli permette una via d’uscita se non nel tentare la morte.

Il “capitale umano”:
Non è solo tutto quello descritto sopra in termini di potenzialità positive e negative, ma  è  il personaggio che apre il film ridotto in cifre, secondo un cinico calcolo monetario.


Il fraseggio del film è serrato, la narrazione è distaccata, non ammorbidita dalla speranza di un ripensamento globale, è quasi un’oggettiva trasposizione cinematografica del presente e, con le inevitabili  differenze, è fedele, come ammesso dallo stesso Amidon, al libro rispecchiandone nel merito e nello stile il contenuto.

Regia: Paolo Virzì
Interpreti: Valeria Golino, Valeria Bruni Tedeschi, Fabrizio Bentivoglio, Fabrizio Gifuni, Luigi Lo Cascio

martedì 29 ottobre 2013

Un fuori tema dall'enunciato del blog, ma in qualche modo comunque collegato: Cent'anni di solitudine


Parlare di Cent'anni di solitudine incute timore, sia per la grandezza del libro che per le innumerevoli parole che sono state  spese per commentarlo e recensirlo.
Io l'ho letto per la seconda volta dopo molto tempo e credo che gli anni che si sono accumulati mi abbiano permesso di apprezzarlo ancora di più.

Marquez usa le parole come frammenti di pietre preziose da incastonare per formare un gioiello elaborato e fantasmagorico che abbaglia per la sua lucentezza, illanguidisce per la sua sensualità e confonde per la sua potenza.
Il tempo scorre su un binario circolare in cui i personaggi vivono la propria esistenza segnati dalla reiterazione degli eventi: passioni, guerre, morte, calamità naturali, tragedie umane, l'inevitabile alternarsi di periodi buoni e cattivi. 
L’impasto narrativo è complesso, ricco di personaggi che si ripetono nei nomi e si confondono come le vicende che vivono; la coopresenza dei morti con i vivi, il rinnovarsi di passioni sfrenate che si alternano alla rinuncia di qualsiasi passione danno l’idea di un cerchio che si chiude per ricominciare non all’infinito ma fino alla consunzione e distruzione del cerchio stesso, come tutte le esistenze individuali vanno verso la vecchiaia e la morte.

Nella sua circolarità il tempo perde la sua dimensione, senza la linearità della progressione temporale, coloro che lo animano si ritrovano a vivere, in un unico immanente momento, tutto il loro passato e futuro, come il liquido agitato in una bottiglia mescola gli elementi che lo compongono.

Nel liquido è tutta la storia di Macondo, città partorita dalla inestinguibile e immaginifica fantasia di Marquez, dagli albori alle fine, con tutti i personaggi che la abitano, e che si propone come il simbolo della vita stessa e della solitudine che inevitabilmente la accompagna. Una solitudine che non è solo individuale ma che ha a  che fare con la incapacità dell’essere umano a costruire una storia personale e sociale che sia immune dall'ingordigia del potere e dalla sopraffazione; una solitudine cosmica per l'impossibilità di comprendere e accettare l'ignoto di ogni esistenza. 

E pure Macondo potrebbe essere allegoria dell’inizio della umanità, una sorta di Eden in cui il peccato originale è quello di non riuscire a vivere in sintonia con i propri simili e con la natura, e della sua fine, Macondo stessa scomparirà sferzata dalla pioggia e dal vento.
Umidità e aridità si alternano come condizioni climatiche, quasi sempre eccessive, e come metafore degli umori fisici e mentali dei personaggi.

In questa eccezionale epopea della famiglia Buendia, così diversa da quelle scritte nel nord del mondo, pervasa da un atmosfera onirica, incantata e stregata al contempo, pure qualcosa che ha il sapore netto della realtà storica è presente nell’elemento destabilizzante e predatorio rappresentato dalla piantagione di banane creata dalla discesa dei gringos. I rapporti sociali e umani vengono alterati, l’ambiente naturale piegato alle esigenze del profitto, fino ad arrivare alla mattanza di tremila operai che scioperano, falciati dalle mitragliatrici che li circondano; i cadaveri vengono caricati sul treno per essere buttati in mare e neanche i testimoni oculari riusciranno ad aver ragione della falsificazioni dei fatti e del negazionismo orchestrato dal potere e accettato dalla popolazione che rinnega il massacro come accaduto.

Si respira nel libro quella fisicità che è tipica delle letterature il cui retroscena culturale non è legato alle religioni monoteistiche se non come successive imposizioni esterne, la spiritualità dei personaggi è profondamente radicata nei corpi che la contengono, corpo e anima sono un unicum nel vissuto dei personaggi e creano atmosfere narrative di intensità  sconosciuta nelle scritture con forte retroscena identitario religioso, quali, a esempio, quelle "occidentali".

Macondo nasce felice, giovane senza che la morte per molti anni la tocchi, poi arriva il potere governativo, l’inevitabile industrializzazione di cui la ferrovia è simbolo e veicolo, e arriva anche la rivoluzione guidata da Aureliano Buendia che combatterà 32 guerre e le perderà tutte. Alla fine la rivoluzione non avrà più la cognizione del tempo né della propria ragione, si perderà anch'essa nella volgarità orrenda della violenza umana.

Quello che si prova dopo aver chiuso il libro è la sensazione che qualcuno ti abbia raccontato in modo immaginario e magico l’essenza della vita stessa  e dell’uomo che, nella ripetizione dei suoi comportamenti, non riesce a trovare salvezza da se stesso; rimane la vivida percezione di quanto possa essere intenso il ricordo delle cose passate e delle persone perse, fino a infiltrare nello spirito e nel corpo una pungente dolorosa nostalgia.

Una frase del libro può forse servire per chiudere: ”..  il segreto di una buona vecchiaia non è altro che un patto onesto con la solitudine".





Le immagini sono prese dal web.

martedì 28 maggio 2013

about "La grande foresta" di William Faulkner


Questo è il primo libro che leggo di Faulkner, se escludo il tentativo abortito di "L'urlo e il furore", lessi inoltre "La paga del soldato",  troppi anni fa per influenzare in qualche modo queste mie riflessioni.

Conosco, comunque, per via indiretta il contesto storico geografico in cui Faulkner visse e quanto sia stata innovativo il suo linguaggio letterario nell’ambito della letteratura americana.

La grande foresta è in forma di romanzo ma riunifica una serie di testi già pubblicati antecedentemente aventi come filo conduttore il tema della caccia ( in alcune edizione è presente un sottotitolo: Racconti di caccia) ma più ancora  avendo medesimi personaggi in tempi diversi e soprattutto individuando nella Foresta il personaggio principale.
In una mia, forse arbitraria o estremamente banale, considerazione, gli scrittori americani si suddividono in due grandi filoni, quelli di città e quelli di provincia, F. fa sicuramente parte dei secondi e la provincia di cui parla è quella del sud degli Stati Uniti, quella che, alla fine della guerra di secessione,  aveva subito un declino culturale, sociale ed economico irreversibile da cui forse non si è mai, completamente, risollevata.
Tali scrittori sono coloro in cui possiamo trovare un rapporto più diretto con l’ambiente naturale, una ricerca più viscerale del legame dell’uomo con la natura, uno sforzo a comprendersi come un elemento di un Tutto più che come costruttore di artifici e speculazioni mentali atti a elaborare una vita in cui porsi al centro come dominatore assoluto.
Per quanto la colonizzazione dell’America abbia fatto di tutto per eliminare, fisicamente e culturalmente, i nativi di quella terra, alcune delle loro idee e dei loro comportamenti di vita hanno fatto breccia negli animi e nelle menti di alcuni coloni, per esempio l’immagine dell’indiano libero e in movimento nei territori sconfinati e il rapporto che quel popolo aveva con la natura. Il loro concetto, che oggi chiamiamo ecologico, era basato sul fatto che l’uomo era parte integrante dell’ambiente in posizione egualitaria con tutte le altre forme di vita che rispettava e di cui al contempo si serviva per la sua sopravvivenza. Il mondo naturale è costruito come un sistema autosufficiente in cui ciascun organismo ha la sua funzione. Nella natura non esiste pietà, quando proviamo  orrore nel guardare una gazzella inseguita e catturata da un leone, proviamo un sentimento estraneo al contesto a cui lo riferiamo;  ma come non esiste la pietà neanche la crudeltà ne fa parte, ogni cosa ha un suo specifico compito per preservare e conservare il tutto, senza emozioni, senza sentimenti, senza alterazioni mentali, è la vita, nel senso più ampio del suo significato, nella sua semplicità essenziale.

Se l’uomo non si compenetra in questo meccanismo, e non l’ha fatto e non lo poteva fare completamente nell’evoluzione quantitativa e qualitativa della sua specie, inevitabilmente ne altera l’equilibrio.
Se qualcosa nell’eco sistema non ha funzionato è proprio l’essere umano, il più dotato essere vivente del pianeta, con il suo sviluppo negli anni, pochissimi in confronto a quelli dell’habitat in cui vive, ne ha stravolto l’equilibrio, perdendo la funzione che aveva in correlazione con le altre affinché il tutto funzionasse e soprattutto forzando quel tutto “in funzione” del suo sviluppo.
E in questa presa di potere  “disfunzionale”, l’uomo ha perso il senso della sua partecipazione al cerchio della vita, ha perso il  significato dell’esistere come compartecipante a un unicum, ha cercato soluzioni esistenziali in immaginarie costruzioni religiose e macchinosi intrecci filosofici, o ha estremizzato razionalmente la sua vita perdendo la percezione magica e sensitiva di essa, quel rapporto diretto e non mediato con il mondo naturale.

Cosa c’entra tutto questo con il libro di Faulkner?  C’entra almeno per me perché è questo che mi è venuto in mente leggendolo. È una letteratura “includente”, espressivamente potente, lo stile narrativo fa si che le parole scritte  e poi lette si facciano immediatamente veicolo ricettivo di un luogo, di una persona , di un evento, la distanza di tempo, di spazio, il salto tra realtà e finzione si annullano per l’efficacia della sua capacità evocativa.
E’ come se anche il lettore attraversasse quel muro ancestrale che nel libro è rappresentato dall’apparire della foresta ai margini della terra spianata dall’uomo, margine che avanza sempre di più, come se vi entrasse dentro e  si compenetrasse con ogni forma vivente al suo interno, alberi, animali, percependo e diventando egli stesso  parte dell’essenza vitale, senza tempo e immateriale, che le pulsa dentro.



 Altri due libri, seppur molto diversi tra di loro, hanno      contribuito alle considerazioni fatte sopra: "Inagehi" sul  rapporto tra natura e nativi e "Indian creek"  sull'esperienza di un giovane uomo che decide, per  lavoro, di passare un intero anno da solo sulle  Montagne Rocciose.


domenica 2 dicembre 2012

A Casa di Toni Morrison




Toni Morrison è, per me,  una grande scrittrice,  incide nella mente di chi la legge qualcosa che è più profondo di semplici sollecitazioni intellettuali, si insinua come un’infiltrazione di sensualità (nell’accezione più larga del termine), di comprensione magica della realtà e dell’”altro”,  crea tra la sue storie e chi le legge una comunicazione diretta e senza filtri culturali.
Ci si impatta con i suoi personaggi, ci si entra dentro e li si vive. E’, la sua, una letteratura viscerale, carica di fisicità, di flessuosità, di ritmo, di istintività, il suo retaggio culturale, l'Africa che le scorre nelle vene, rende la sua scrittura qualcosa di particolare rispetto a quella cosi detta "occidentale".

Ho letto quasi tutti i suoi libri, quelli che mi sono particolarmente cari sono Amatissima e Jazz dove, più  che negli  altri, il suo linguaggio si fa musica, musica blues per il primo e musica jazz per il secondo.
E’ un libro (qui la sinossi) che parla di guerra e di razzismo, di comprensione umana e di aridità umana, di vite violentate e del riscatto di quelle stesse vite, della trasformazione della propria umanità, costretta a vivere l’orrore,  in un “cuore di tenebra” e del coraggio e la forza di saperla recuperare.

Di guerra: vedere i propri amici dilaniati e continuare a vederli anche dopo che sono morti e riuscire a esorcizzare il dolore solo tramite l’assassinio indiscriminato di altri esseri viventi ;
 bambini ridotti a offrirsi come oggetti sessuali e poi ucciderli per il disgusto, non solo verso una realtà orrenda ma anche verso sé stessi per aver provato la tentazione di accettare.

Di razzismo:essere cacciati, da un giorno all’altro, dalla propria terra e dalla propria casa perché di pelle nera,  essere vecchi e picchiati a morte con spranghe di ferro e calci dei fucili,  legati ad un albero con gli occhi cavati perché ci si è rifiutati di farlo;
essere bastonati e presi a calci per essere entrati in un negozio dove non si accettano persone “di colore”;
aver perso un braccio perché un poliziotto decide di fare il duro con un bambino e di sparargli;
essere usati come cavie umane per esperimenti medici; essere sfruttati  tanto da non avere neanche la forza di rivolgere una carezza e un sorriso ai propri figli.

Di comprensione umana: una rete di solidarietà e di appoggio concreto sul territorio per gli afroamericani in difficoltà, retaggio di quella Underground Railway che aveva protetto gli schiavi fuggiaschi con una serie informale di itinerari segreti e luoghi sicuri a partire dal 1700; il lavoro di donne energiche fisicamente ed emotivamente che vanno avanti a testa alta in una vita piena di difficoltà e di ingiustizie e si prendono cura materiale e psichica di una ragazza in fin di vita ridonandole la forza di vivere e un futuro;

Di aridità umana: riuscire a trattare una bambina in modo crudele senza neanche un’ombra di affettività, distruggendone l’infanzia e la coscienza di sé stessa, considerando il proprio tornaconto come unico valore che abbia senso tutelare;

Le vite dei due personaggi, Frank e Ysidra fratello e sorella, sono state violate da tutto ciò e Frank stesso ha violato altre vite.  Il libro li riporta “ a casa” che ha una collocazione fisica a Lotus in Georgia “il posto più brutto del mondo”  e una metaforica all’interno della loro essenza umana.
Lei,  Ysidra, aiutata dalla forza vitale delle donne che la curano,  riacquista la coscienza di sé come essere umano, con propri valori e qualità e si proietta verso il futuro, lui, Frank riporta alla coscienza quello che aveva rimosso e traslato in un falso ricordo dei fatti accaduti,  si muove più  verso una ricostruzione realistica del passato per venir fuori dal buco nero in cui la guerra lo aveva gettato. Solo facendo i conti con se stesso può riemergere, forse si possono perdonare i torti subiti, quasi mai quelli commessi.
Entrambi ritroveranno la pace interiore proprio nella loro casa dove entrambi faranno ritorno, non c’è niente e nessuno da cui ritornare, né materialmente né affettivamente,  è solo la fine di un viaggio, il ritorno consapevole al luogo di partenza. Non a caso l’ultimo atto che dei due fratelli ci viene raccontato riprende ciò che marginalmente li aveva colpiti nel primo capitolo. E’ Frank lì che ci racconta, con una potenza descrittiva quasi magica, una scappatella sua e di Ysidra quando erano ancora entrambi piccoli.
Il loro atto finale  rende giustizia e pietà al passato e si apre al domani.

La particolarità stilistica del libro è l’inserimento di capitoli in corsivo, in cui la voce narrante è quella di Frank che non solo ci da il suo racconto dei fatti e il suo punto di vista, ma dialoga con la scrittrice, quasi la sfida a cimentarsi nel racconto della sua vita. La sua voce rafforza la narrazione della storia, la personalizza e la drammatizza, quasi mettesse in dubbio la capacità della scrittrice di rendere adeguatamente la sua storia, come a dire “se non hai vissuto queste cose da “dentro” non puoi capirle né renderle in tutta la loro drammaticità”. Ma la Morrison le ha vissute da “dentro” e gira il dubbio di Frank a noi lettori mettendoci all’erta.

Un’ultima cosa, nel libro ricorre sporadicamente la visione di un omino vestito con un zoot suit, abito usato dagli afroamericani negli anni ’40, non riesco bene a individuarne la funzione, ho pensato a una sorta di coscienza di Frank che lo controlla aspettando la sua rinascita, ma, come dicevo, lasciamo che Morrison giochi con noi e la nostra poca dimestichezza con gli aspetti magici e irrazionali della vita. 



 “Sei libera. Niente e nessuno è obbligato a salvarti se non te stessa. Semina la tua terra.”

“Ritto qui c’è un uomo”



lunedì 28 maggio 2012

Dolce far nulla

Dolce far nulla

Un attimo fa ho dato un'occhiata nella stanza
ed ecco quel che ho visto:
la mia sedia al suo posto, accanto alla finestra,
il libro appoggiato faccia in giù sul tavolo.
E sul davanzale, la sigaretta
lasciata accesa nel posacenere.
Lavativo!, mi urlava sempre dietro mio zio,
tanto tempo fa. Aveva proprio ragione.
Anche oggi, come ogni giorno,
ho messo da parte un po' di tempo
per fare un bel niente.

Raymond Carver

http://youtu.be/jtSpiF5q-Cg

lunedì 16 aprile 2012

Non sense americano in

"Pesca alla trota in America" di Richard Brautigan, traduzione di Riccardo Duranti, a cura di Enrico Monti, edizioni Isbn



Un giorno incontrai Pesca alla trota in America, indossava un pianoforte a mezza coda e suonava la tromba. Le note uscivano dalla campana e, dopo aver suonato i tasti del pianoforte, rimbalzavano per terra e se ne andavano a spasso tra la gente…mi fermai e gli chiesi come mai fosse così elegante e lui con gli occhi mi indicò qualcuno che stava passando di lì..era Chet Baker.. che mi disse  “ Il pianoforte ha in se tutta la musica, lo indossi ed essa ti penetra dentro e dall’interno di te fuoriesce, eterea e immateriale.. i pensieri si intrecciano alle emozioni, ti fa buttare fuori quello che hai dentro, tutte le sensazioni e le percezioni, e ti permette di rendere evanescente anche la realtà”. Ringraziai Chet, salutai Pesca, raccolsi una nota, me la misi n tasca e continuai a camminare accompagnandomi nell’aria.

Ecco una roba così questo libro, un insieme di capitoli fatti di non sense, quello qui sopra l’ho inventato io, con buona pace di Brautigan, per dare un‘idea, senza citarlo…ne chiedo venia….

Brautigan nasce a Tacoma nel 1935 sulle coste settentrionali della west coast, un territorio di una bellezza imponente e selvaggia, la sua infanzia è difficile, non conosce il padre ( né il padre sapeva della sua esistenza)  cresce senza amore e comprensione, viene maltrattato, a volte, dagli uomini della madre. La sua adolescenza è altrettanto travagliata, decide, ad un certo punto, di essere il migliore della classe, ci riesce  ma poi lascia perdere perché lo trova noioso. E' di poche parole ed ha pochi amici. A 19 anni entra in una stazione di polizia e lancia un sasso contro una vetrata, viene arrestato e finisce nel manicomio dove Milos Forman ambienterà “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. Quando ne esce, pochi mesi dopo, lascia per sempre la madre e parte per  San Francisco. Inizia a lavorare come assistente per un inventore e viene a contatto con gli ambienti libertari della cultura underground, dove ha modo di conoscere molti autori di quel periodo ma non si inserisce completamente nella loro cerchia. Scrive, pubblica poesie e il suo primo romanzo ”Il generale immaginario” che non riscuote il successo che otterrà, invece, con "Pesca alla trota in America", scritto nel 1961 e pubblicato nel 1967. Il libro venderà circa due milioni di copie, diventando una sorta di manifesto della controcultura della fine degli anni ’60.
La notorietà non gli è d’aiuto, però: anzi l’essere riconosciuto per strada alla stregua di una star hollywoodiana  lo spingerà ad isolarsi nel Montana, ma, contraddittoriamente, quando sarà dimenticato e non più apprezzato, si sentirà di nuovo abbandonato.  L’alcolismo, presenza quasi continua nella sua vita, la paranoia e il disagio mentale del vivere lo porteranno alla morte, verrà infatti trovato suicida in una casa in California.
Il suo romanzo, (anche se parlare di romanzo è già un azzardo), il suo libro è un insieme di episodi surreali, paradossali, immaginifici, ognuno a sé stante, senza un logico collegamento, l’unico filo conduttore è Pesca alla trota in America, un filo anch'esso fluttuante che si perde in una realtà visionaria.
Ma cosa o chi  è “Pesca alla trota in America”? Bella domanda!
E` essenzialmente un‘entità poliedrica che l'autore usa funambolicamente per raggiungere i suoi scopi narrativi, può essere un luogo, una persona, una cosa, un modo di essere, di pensare. Nella realtà è una consuetudine della vita di provincia americana. 
E’ probabile che  proprio partendo da questa tradizione della pesca, (forse una a caso)  B. abbia voluto scardinare tutta la banalità, l’ipocrisia, l’assurdità di rituali che assurgono a realizzazioni di vite, che abbia dato una versione onirica di quel sogno americano che si spegne ogni giorno in una realtà opaca e ripetitiva, in cui la libertà di fare si scontra con la libertà dell’essere.
L’autore è l'emblema di un uomo che, penalizzato da una vita difficile e dotato di una sensibilità "altra", non riesce a rimanere nei canoni sociali riconosciuti e si ritrova a vivere in quella parte di umanità, definita “white trash”, che abita ai margini della società che del conformismo fa la sua regola di vivere e il suo modo di realizzarsi.
In fondo è il problema di sempre di chi in questa tipologia di vita ci sta stretto e cerca vie di fuga che, spesso, l’unico luogo in cui conducono sono l’emarginazione a vari livelli, la follia in varie forme, fino ad arrivare al suicidio. Le sue, di vie di fuga, sono state l’alcool e la scrittura in cui esprime la capacità di ribaltare in farsa le modalità consolidate di gestire la quotidianità, creando un modo per uscire fuori dalla gabbia di una realtà in cui si sta scomodi.
Leggendolo, questo libro, mi sono venute in mente varie correlazioni: una con la letteratura legata alla Patafisica (Boris Vian per intenderci), “scienza delle soluzioni immaginarie”, in cui si da risalto al particolare, si sottolinea l’eccezione e si trasfigura la realtà descrivendola in modo non sensato, assurdo e surreale, l’unico possibile per poterne parlare.
L’altra è con i racconti di R. Carver, momenti isolati di realtà diverse, brevi episodi di esistenza senza che se ne sappia alcunché del prima e del dopo, spezzoni di vita presi a caso, brevi narrazioni che racchiudono e rendono il senso della vita attraverso brevi spiragli temporali. Ma quello che caratterizza Carver è proprio la scarnificazione della realtà in gesti quotidiani, di cui ci dà una descrizione così come accadono senza alterazioni letterarie, stringate narrazioni di singoli episodi, la comicità e la tragicità della vita così com’è, semplicemente. Brautigan, invece, stravolge la realtà,  ammanta quei singoli episodi di una surreale trasfigurazione.  Il primo scarnifica anche la narrazione, riduce  le parole per  descriverla, le limita all’essenziale; il secondo, rasentando a volte la poeticità, ha costruzioni letterarie più elaborate e le parole diventano stramberie atte all’uso. Entrambi ci danno una visione dell’assurdità della vita in generale e, in particolare, della decomposizione ( in tutti i sensi) del sogno americano. E’ strano sembra che la letteratura americana si divida tra coloro che celebrano il famigerato “sogno americano” e coloro che lo smantellano; il mito per antonomasia ha focalizzato, in negativo e in positivo le forme artistiche del nuovo mondo.
A conclusione di questo tentativo, forse confusionario e, mi sembra,  per niente esaustivo, di parlare di un libro che fa divertire, pensare, anche per decriptare il suo senso, e che lascia un fondo di tristezza e di ineluttabilità, prendo due citazioni una dallo stesso libro e la seconda  da Alain Resneis tratta dal suo film “Mon oncle d'Amérique”:

“ stava partendo per l’America, che spesso è solo un luogo della mente”

“L’America non esiste, io lo so perché ci sono stato”

Consiglio di leggerlo per capire quello che ho provato a dire e…la prossiva volta che vi capita di incontrarlo, Pesca alla trota in America, raccogliete anche voi una nota e mettetela in tasca…….


p.s. dopo aver postato quest’ultima foto di Brautigan,( la prima che ho messo è quella della copertina della prima edizione americana del libro) mi è venuto in mente che la foto, nell’espressione, nel gesto, nella postura etc .etc. è una sintesi visiva di tutto quello che è stato Brautigan, o almeno di quello che io ho capito di lui…una sorta di ultima scena di un film…avete presente gli ultimi fotogrammi di C’era una volta in America, il sorriso, ripreso dall’alto, di Noodle sdraiato sul lettino della fumeria d’oppio ? Beh secondo me quel sorriso racchiude tutto il film, come la foto la personalità di Brautigan.


lunedì 6 febbraio 2012

Molta america in poche righe di un libro

Ho letto questo libro tanto tempo fa, come immagino abbiano fatto molti miei coetanei. In realtà non ne ricordo la trama, riprendendolo ora in mano, ne ho riletto l'incipit e anche la citazione sulla copertina, questa:
"La' attorno c'era aria di mistero. La macchina correva su una strada fangosa elevata sulle paludi che strapiombava da entrambi i lati e lasciava pendere dei viticci. Oltrepassammo un'apparizione: un negro con una camicia bianca che camminava con le braccia levate verso il cielo d'inchiostro. Poteva essere che pregasse oppure invocasse una maledizione. Noi gli saettammo proprio accanto; mi voltai a guardare dal finestrino posteriore per vedere i suoi occhi bianchi". 

Non ho memoria del contesto narrativo in cui questo brano è inserito ma in queste poche righe è nascosto molto più di quello che le parole esprimono….

….aria di mistero….

mistero che aleggia nell’aria dei paesaggi…
quando lo sguardo si perde all’infinito senza che qualsiasi elemento gli faccia da punto di riferimento, lungo le pianure dove di notte incombe un cielo a cupola e le stelle arrivano fino all’orizzonte;
quando il mondo si capovolge e i rilievi si ergono dal basso delimitati da canyon e ci raccontano quello che una volta era il fondo del mare;
quando monoliti scolpiti dal tempo segnano il territorio come giganti muti a testimoniare
la grandezza dell’ignoto;
quando si attraversano paludi che sembrano nascondere nel loro intrigo di acque, rami, radici e alberi il senso oscuro della terra, paure ancestrali avvolte in riverberi di luce umida e visionaria;
quando si percepisce che quella magia e quel senso di mistero e' stato forse compreso solo da coloro che per primi lo vissero, perché lo interpretavano e soprattutto lo rispettavano e lo spirito di quegli uomini, perché solo quello è rimasto, fa parte di quel mistero:

e la macchina correva

Topos nord-americano, l’”on the road” …appunto… il viaggio, lo spostamento, la voglia di andare oltre, il mito di Ulisse il mito della “frontiera”, ma anche la fuga, la fuga da tutto, la fuga da se stessi, dalla vita, dal sogno irrealizzato e irrealizzabile, dal mondo organizzato, dall’io organizzato e nel viaggio, nella fuga gli occhi vedono…vedono scivolare paesaggi, punti di vista e la “libertà” sembra raggiunta….

oltrepassammo un’apparizione…

di “apparizioni” se ne incontrano viaggiando…stranezze di vario genere, umane, paesaggistiche naturali e non…su di una terra gravida di incastri culturali, di aspettative mancate, di crudeltà esasperate, di verità cercate, celate o imposte, di menzogne, di sangue e sofferenze…si aggirano stranezze e pazzie solitarie che si colgono e si lasciano indietro ma che rimangono nella mente…”mi voltai a guardare dal finestrino posteriore per vedere i suoi occhi bianchi.
…apparizione….dell’umanità negata…

….un negro che camminava con una camicia bianca…

contrasto nero/bianco, un contrasto mai sanato…
è l’apparizione di uno degli orrori consumati nel nord America,
una delle sue più assordanti contraddizioni

camminava con le braccia levate verso il cielo d'inchiostro. Poteva essere che pregasse oppure invocasse una maledizione…

camminava e il suo percorso era iniziato da molto lontano e forzatamente; dietro i suoi passi un scia che, senza pietà, dalla terra d’Africa si inabissava in fondo all’Oceano Atlantico, lasciando un “binario di ossa” e riemergeva come psichedelica allucinazione in una sequenza di laceranti urla, latrati di cani , sferzate di frusta, di “strange fruit” pendenti dagli alberi, di fuochi umani, di ventri profanati, di cognomi da mutare in X, di carni e anime lacerate, di affetti strappati, di dignità schiacciate…pregava un dio che non l’ha salvato, malediceva una razza bianca dall’anima nera che l’ha profanato...

gli saettammo proprio accanto….

in un attimo ci possono essere molte cose, in poche righe molto di più di un semplice attimo temporale.