martedì 29 ottobre 2013

Un fuori tema dall'enunciato del blog, ma in qualche modo comunque collegato: Cent'anni di solitudine


Parlare di Cent'anni di solitudine incute timore, sia per la grandezza del libro che per le innumerevoli parole che sono state  spese per commentarlo e recensirlo.
Io l'ho letto per la seconda volta dopo molto tempo e credo che gli anni che si sono accumulati mi abbiano permesso di apprezzarlo ancora di più.

Marquez usa le parole come frammenti di pietre preziose da incastonare per formare un gioiello elaborato e fantasmagorico che abbaglia per la sua lucentezza, illanguidisce per la sua sensualità e confonde per la sua potenza.
Il tempo scorre su un binario circolare in cui i personaggi vivono la propria esistenza segnati dalla reiterazione degli eventi: passioni, guerre, morte, calamità naturali, tragedie umane, l'inevitabile alternarsi di periodi buoni e cattivi. 
L’impasto narrativo è complesso, ricco di personaggi che si ripetono nei nomi e si confondono come le vicende che vivono; la coopresenza dei morti con i vivi, il rinnovarsi di passioni sfrenate che si alternano alla rinuncia di qualsiasi passione danno l’idea di un cerchio che si chiude per ricominciare non all’infinito ma fino alla consunzione e distruzione del cerchio stesso, come tutte le esistenze individuali vanno verso la vecchiaia e la morte.

Nella sua circolarità il tempo perde la sua dimensione, senza la linearità della progressione temporale, coloro che lo animano si ritrovano a vivere, in un unico immanente momento, tutto il loro passato e futuro, come il liquido agitato in una bottiglia mescola gli elementi che lo compongono.

Nel liquido è tutta la storia di Macondo, città partorita dalla inestinguibile e immaginifica fantasia di Marquez, dagli albori alle fine, con tutti i personaggi che la abitano, e che si propone come il simbolo della vita stessa e della solitudine che inevitabilmente la accompagna. Una solitudine che non è solo individuale ma che ha a  che fare con la incapacità dell’essere umano a costruire una storia personale e sociale che sia immune dall'ingordigia del potere e dalla sopraffazione; una solitudine cosmica per l'impossibilità di comprendere e accettare l'ignoto di ogni esistenza. 

E pure Macondo potrebbe essere allegoria dell’inizio della umanità, una sorta di Eden in cui il peccato originale è quello di non riuscire a vivere in sintonia con i propri simili e con la natura, e della sua fine, Macondo stessa scomparirà sferzata dalla pioggia e dal vento.
Umidità e aridità si alternano come condizioni climatiche, quasi sempre eccessive, e come metafore degli umori fisici e mentali dei personaggi.

In questa eccezionale epopea della famiglia Buendia, così diversa da quelle scritte nel nord del mondo, pervasa da un atmosfera onirica, incantata e stregata al contempo, pure qualcosa che ha il sapore netto della realtà storica è presente nell’elemento destabilizzante e predatorio rappresentato dalla piantagione di banane creata dalla discesa dei gringos. I rapporti sociali e umani vengono alterati, l’ambiente naturale piegato alle esigenze del profitto, fino ad arrivare alla mattanza di tremila operai che scioperano, falciati dalle mitragliatrici che li circondano; i cadaveri vengono caricati sul treno per essere buttati in mare e neanche i testimoni oculari riusciranno ad aver ragione della falsificazioni dei fatti e del negazionismo orchestrato dal potere e accettato dalla popolazione che rinnega il massacro come accaduto.

Si respira nel libro quella fisicità che è tipica delle letterature il cui retroscena culturale non è legato alle religioni monoteistiche se non come successive imposizioni esterne, la spiritualità dei personaggi è profondamente radicata nei corpi che la contengono, corpo e anima sono un unicum nel vissuto dei personaggi e creano atmosfere narrative di intensità  sconosciuta nelle scritture con forte retroscena identitario religioso, quali, a esempio, quelle "occidentali".

Macondo nasce felice, giovane senza che la morte per molti anni la tocchi, poi arriva il potere governativo, l’inevitabile industrializzazione di cui la ferrovia è simbolo e veicolo, e arriva anche la rivoluzione guidata da Aureliano Buendia che combatterà 32 guerre e le perderà tutte. Alla fine la rivoluzione non avrà più la cognizione del tempo né della propria ragione, si perderà anch'essa nella volgarità orrenda della violenza umana.

Quello che si prova dopo aver chiuso il libro è la sensazione che qualcuno ti abbia raccontato in modo immaginario e magico l’essenza della vita stessa  e dell’uomo che, nella ripetizione dei suoi comportamenti, non riesce a trovare salvezza da se stesso; rimane la vivida percezione di quanto possa essere intenso il ricordo delle cose passate e delle persone perse, fino a infiltrare nello spirito e nel corpo una pungente dolorosa nostalgia.

Una frase del libro può forse servire per chiudere: ”..  il segreto di una buona vecchiaia non è altro che un patto onesto con la solitudine".





Le immagini sono prese dal web.

martedì 28 maggio 2013

about "La grande foresta" di William Faulkner


Questo è il primo libro che leggo di Faulkner, se escludo il tentativo abortito di "L'urlo e il furore", lessi inoltre "La paga del soldato",  troppi anni fa per influenzare in qualche modo queste mie riflessioni.

Conosco, comunque, per via indiretta il contesto storico geografico in cui Faulkner visse e quanto sia stata innovativo il suo linguaggio letterario nell’ambito della letteratura americana.

La grande foresta è in forma di romanzo ma riunifica una serie di testi già pubblicati antecedentemente aventi come filo conduttore il tema della caccia ( in alcune edizione è presente un sottotitolo: Racconti di caccia) ma più ancora  avendo medesimi personaggi in tempi diversi e soprattutto individuando nella Foresta il personaggio principale.
In una mia, forse arbitraria o estremamente banale, considerazione, gli scrittori americani si suddividono in due grandi filoni, quelli di città e quelli di provincia, F. fa sicuramente parte dei secondi e la provincia di cui parla è quella del sud degli Stati Uniti, quella che, alla fine della guerra di secessione,  aveva subito un declino culturale, sociale ed economico irreversibile da cui forse non si è mai, completamente, risollevata.
Tali scrittori sono coloro in cui possiamo trovare un rapporto più diretto con l’ambiente naturale, una ricerca più viscerale del legame dell’uomo con la natura, uno sforzo a comprendersi come un elemento di un Tutto più che come costruttore di artifici e speculazioni mentali atti a elaborare una vita in cui porsi al centro come dominatore assoluto.
Per quanto la colonizzazione dell’America abbia fatto di tutto per eliminare, fisicamente e culturalmente, i nativi di quella terra, alcune delle loro idee e dei loro comportamenti di vita hanno fatto breccia negli animi e nelle menti di alcuni coloni, per esempio l’immagine dell’indiano libero e in movimento nei territori sconfinati e il rapporto che quel popolo aveva con la natura. Il loro concetto, che oggi chiamiamo ecologico, era basato sul fatto che l’uomo era parte integrante dell’ambiente in posizione egualitaria con tutte le altre forme di vita che rispettava e di cui al contempo si serviva per la sua sopravvivenza. Il mondo naturale è costruito come un sistema autosufficiente in cui ciascun organismo ha la sua funzione. Nella natura non esiste pietà, quando proviamo  orrore nel guardare una gazzella inseguita e catturata da un leone, proviamo un sentimento estraneo al contesto a cui lo riferiamo;  ma come non esiste la pietà neanche la crudeltà ne fa parte, ogni cosa ha un suo specifico compito per preservare e conservare il tutto, senza emozioni, senza sentimenti, senza alterazioni mentali, è la vita, nel senso più ampio del suo significato, nella sua semplicità essenziale.

Se l’uomo non si compenetra in questo meccanismo, e non l’ha fatto e non lo poteva fare completamente nell’evoluzione quantitativa e qualitativa della sua specie, inevitabilmente ne altera l’equilibrio.
Se qualcosa nell’eco sistema non ha funzionato è proprio l’essere umano, il più dotato essere vivente del pianeta, con il suo sviluppo negli anni, pochissimi in confronto a quelli dell’habitat in cui vive, ne ha stravolto l’equilibrio, perdendo la funzione che aveva in correlazione con le altre affinché il tutto funzionasse e soprattutto forzando quel tutto “in funzione” del suo sviluppo.
E in questa presa di potere  “disfunzionale”, l’uomo ha perso il senso della sua partecipazione al cerchio della vita, ha perso il  significato dell’esistere come compartecipante a un unicum, ha cercato soluzioni esistenziali in immaginarie costruzioni religiose e macchinosi intrecci filosofici, o ha estremizzato razionalmente la sua vita perdendo la percezione magica e sensitiva di essa, quel rapporto diretto e non mediato con il mondo naturale.

Cosa c’entra tutto questo con il libro di Faulkner?  C’entra almeno per me perché è questo che mi è venuto in mente leggendolo. È una letteratura “includente”, espressivamente potente, lo stile narrativo fa si che le parole scritte  e poi lette si facciano immediatamente veicolo ricettivo di un luogo, di una persona , di un evento, la distanza di tempo, di spazio, il salto tra realtà e finzione si annullano per l’efficacia della sua capacità evocativa.
E’ come se anche il lettore attraversasse quel muro ancestrale che nel libro è rappresentato dall’apparire della foresta ai margini della terra spianata dall’uomo, margine che avanza sempre di più, come se vi entrasse dentro e  si compenetrasse con ogni forma vivente al suo interno, alberi, animali, percependo e diventando egli stesso  parte dell’essenza vitale, senza tempo e immateriale, che le pulsa dentro.



 Altri due libri, seppur molto diversi tra di loro, hanno      contribuito alle considerazioni fatte sopra: "Inagehi" sul  rapporto tra natura e nativi e "Indian creek"  sull'esperienza di un giovane uomo che decide, per  lavoro, di passare un intero anno da solo sulle  Montagne Rocciose.