domenica 2 dicembre 2012

A Casa di Toni Morrison




Toni Morrison è, per me,  una grande scrittrice,  incide nella mente di chi la legge qualcosa che è più profondo di semplici sollecitazioni intellettuali, si insinua come un’infiltrazione di sensualità (nell’accezione più larga del termine), di comprensione magica della realtà e dell’”altro”,  crea tra la sue storie e chi le legge una comunicazione diretta e senza filtri culturali.
Ci si impatta con i suoi personaggi, ci si entra dentro e li si vive. E’, la sua, una letteratura viscerale, carica di fisicità, di flessuosità, di ritmo, di istintività, il suo retaggio culturale, l'Africa che le scorre nelle vene, rende la sua scrittura qualcosa di particolare rispetto a quella cosi detta "occidentale".

Ho letto quasi tutti i suoi libri, quelli che mi sono particolarmente cari sono Amatissima e Jazz dove, più  che negli  altri, il suo linguaggio si fa musica, musica blues per il primo e musica jazz per il secondo.
E’ un libro (qui la sinossi) che parla di guerra e di razzismo, di comprensione umana e di aridità umana, di vite violentate e del riscatto di quelle stesse vite, della trasformazione della propria umanità, costretta a vivere l’orrore,  in un “cuore di tenebra” e del coraggio e la forza di saperla recuperare.

Di guerra: vedere i propri amici dilaniati e continuare a vederli anche dopo che sono morti e riuscire a esorcizzare il dolore solo tramite l’assassinio indiscriminato di altri esseri viventi ;
 bambini ridotti a offrirsi come oggetti sessuali e poi ucciderli per il disgusto, non solo verso una realtà orrenda ma anche verso sé stessi per aver provato la tentazione di accettare.

Di razzismo:essere cacciati, da un giorno all’altro, dalla propria terra e dalla propria casa perché di pelle nera,  essere vecchi e picchiati a morte con spranghe di ferro e calci dei fucili,  legati ad un albero con gli occhi cavati perché ci si è rifiutati di farlo;
essere bastonati e presi a calci per essere entrati in un negozio dove non si accettano persone “di colore”;
aver perso un braccio perché un poliziotto decide di fare il duro con un bambino e di sparargli;
essere usati come cavie umane per esperimenti medici; essere sfruttati  tanto da non avere neanche la forza di rivolgere una carezza e un sorriso ai propri figli.

Di comprensione umana: una rete di solidarietà e di appoggio concreto sul territorio per gli afroamericani in difficoltà, retaggio di quella Underground Railway che aveva protetto gli schiavi fuggiaschi con una serie informale di itinerari segreti e luoghi sicuri a partire dal 1700; il lavoro di donne energiche fisicamente ed emotivamente che vanno avanti a testa alta in una vita piena di difficoltà e di ingiustizie e si prendono cura materiale e psichica di una ragazza in fin di vita ridonandole la forza di vivere e un futuro;

Di aridità umana: riuscire a trattare una bambina in modo crudele senza neanche un’ombra di affettività, distruggendone l’infanzia e la coscienza di sé stessa, considerando il proprio tornaconto come unico valore che abbia senso tutelare;

Le vite dei due personaggi, Frank e Ysidra fratello e sorella, sono state violate da tutto ciò e Frank stesso ha violato altre vite.  Il libro li riporta “ a casa” che ha una collocazione fisica a Lotus in Georgia “il posto più brutto del mondo”  e una metaforica all’interno della loro essenza umana.
Lei,  Ysidra, aiutata dalla forza vitale delle donne che la curano,  riacquista la coscienza di sé come essere umano, con propri valori e qualità e si proietta verso il futuro, lui, Frank riporta alla coscienza quello che aveva rimosso e traslato in un falso ricordo dei fatti accaduti,  si muove più  verso una ricostruzione realistica del passato per venir fuori dal buco nero in cui la guerra lo aveva gettato. Solo facendo i conti con se stesso può riemergere, forse si possono perdonare i torti subiti, quasi mai quelli commessi.
Entrambi ritroveranno la pace interiore proprio nella loro casa dove entrambi faranno ritorno, non c’è niente e nessuno da cui ritornare, né materialmente né affettivamente,  è solo la fine di un viaggio, il ritorno consapevole al luogo di partenza. Non a caso l’ultimo atto che dei due fratelli ci viene raccontato riprende ciò che marginalmente li aveva colpiti nel primo capitolo. E’ Frank lì che ci racconta, con una potenza descrittiva quasi magica, una scappatella sua e di Ysidra quando erano ancora entrambi piccoli.
Il loro atto finale  rende giustizia e pietà al passato e si apre al domani.

La particolarità stilistica del libro è l’inserimento di capitoli in corsivo, in cui la voce narrante è quella di Frank che non solo ci da il suo racconto dei fatti e il suo punto di vista, ma dialoga con la scrittrice, quasi la sfida a cimentarsi nel racconto della sua vita. La sua voce rafforza la narrazione della storia, la personalizza e la drammatizza, quasi mettesse in dubbio la capacità della scrittrice di rendere adeguatamente la sua storia, come a dire “se non hai vissuto queste cose da “dentro” non puoi capirle né renderle in tutta la loro drammaticità”. Ma la Morrison le ha vissute da “dentro” e gira il dubbio di Frank a noi lettori mettendoci all’erta.

Un’ultima cosa, nel libro ricorre sporadicamente la visione di un omino vestito con un zoot suit, abito usato dagli afroamericani negli anni ’40, non riesco bene a individuarne la funzione, ho pensato a una sorta di coscienza di Frank che lo controlla aspettando la sua rinascita, ma, come dicevo, lasciamo che Morrison giochi con noi e la nostra poca dimestichezza con gli aspetti magici e irrazionali della vita. 



 “Sei libera. Niente e nessuno è obbligato a salvarti se non te stessa. Semina la tua terra.”

“Ritto qui c’è un uomo”



lunedì 28 maggio 2012

Dolce far nulla

Dolce far nulla

Un attimo fa ho dato un'occhiata nella stanza
ed ecco quel che ho visto:
la mia sedia al suo posto, accanto alla finestra,
il libro appoggiato faccia in giù sul tavolo.
E sul davanzale, la sigaretta
lasciata accesa nel posacenere.
Lavativo!, mi urlava sempre dietro mio zio,
tanto tempo fa. Aveva proprio ragione.
Anche oggi, come ogni giorno,
ho messo da parte un po' di tempo
per fare un bel niente.

Raymond Carver

http://youtu.be/jtSpiF5q-Cg

lunedì 16 aprile 2012

Non sense americano in

"Pesca alla trota in America" di Richard Brautigan, traduzione di Riccardo Duranti, a cura di Enrico Monti, edizioni Isbn



Un giorno incontrai Pesca alla trota in America, indossava un pianoforte a mezza coda e suonava la tromba. Le note uscivano dalla campana e, dopo aver suonato i tasti del pianoforte, rimbalzavano per terra e se ne andavano a spasso tra la gente…mi fermai e gli chiesi come mai fosse così elegante e lui con gli occhi mi indicò qualcuno che stava passando di lì..era Chet Baker.. che mi disse  “ Il pianoforte ha in se tutta la musica, lo indossi ed essa ti penetra dentro e dall’interno di te fuoriesce, eterea e immateriale.. i pensieri si intrecciano alle emozioni, ti fa buttare fuori quello che hai dentro, tutte le sensazioni e le percezioni, e ti permette di rendere evanescente anche la realtà”. Ringraziai Chet, salutai Pesca, raccolsi una nota, me la misi n tasca e continuai a camminare accompagnandomi nell’aria.

Ecco una roba così questo libro, un insieme di capitoli fatti di non sense, quello qui sopra l’ho inventato io, con buona pace di Brautigan, per dare un‘idea, senza citarlo…ne chiedo venia….

Brautigan nasce a Tacoma nel 1935 sulle coste settentrionali della west coast, un territorio di una bellezza imponente e selvaggia, la sua infanzia è difficile, non conosce il padre ( né il padre sapeva della sua esistenza)  cresce senza amore e comprensione, viene maltrattato, a volte, dagli uomini della madre. La sua adolescenza è altrettanto travagliata, decide, ad un certo punto, di essere il migliore della classe, ci riesce  ma poi lascia perdere perché lo trova noioso. E' di poche parole ed ha pochi amici. A 19 anni entra in una stazione di polizia e lancia un sasso contro una vetrata, viene arrestato e finisce nel manicomio dove Milos Forman ambienterà “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. Quando ne esce, pochi mesi dopo, lascia per sempre la madre e parte per  San Francisco. Inizia a lavorare come assistente per un inventore e viene a contatto con gli ambienti libertari della cultura underground, dove ha modo di conoscere molti autori di quel periodo ma non si inserisce completamente nella loro cerchia. Scrive, pubblica poesie e il suo primo romanzo ”Il generale immaginario” che non riscuote il successo che otterrà, invece, con "Pesca alla trota in America", scritto nel 1961 e pubblicato nel 1967. Il libro venderà circa due milioni di copie, diventando una sorta di manifesto della controcultura della fine degli anni ’60.
La notorietà non gli è d’aiuto, però: anzi l’essere riconosciuto per strada alla stregua di una star hollywoodiana  lo spingerà ad isolarsi nel Montana, ma, contraddittoriamente, quando sarà dimenticato e non più apprezzato, si sentirà di nuovo abbandonato.  L’alcolismo, presenza quasi continua nella sua vita, la paranoia e il disagio mentale del vivere lo porteranno alla morte, verrà infatti trovato suicida in una casa in California.
Il suo romanzo, (anche se parlare di romanzo è già un azzardo), il suo libro è un insieme di episodi surreali, paradossali, immaginifici, ognuno a sé stante, senza un logico collegamento, l’unico filo conduttore è Pesca alla trota in America, un filo anch'esso fluttuante che si perde in una realtà visionaria.
Ma cosa o chi  è “Pesca alla trota in America”? Bella domanda!
E` essenzialmente un‘entità poliedrica che l'autore usa funambolicamente per raggiungere i suoi scopi narrativi, può essere un luogo, una persona, una cosa, un modo di essere, di pensare. Nella realtà è una consuetudine della vita di provincia americana. 
E’ probabile che  proprio partendo da questa tradizione della pesca, (forse una a caso)  B. abbia voluto scardinare tutta la banalità, l’ipocrisia, l’assurdità di rituali che assurgono a realizzazioni di vite, che abbia dato una versione onirica di quel sogno americano che si spegne ogni giorno in una realtà opaca e ripetitiva, in cui la libertà di fare si scontra con la libertà dell’essere.
L’autore è l'emblema di un uomo che, penalizzato da una vita difficile e dotato di una sensibilità "altra", non riesce a rimanere nei canoni sociali riconosciuti e si ritrova a vivere in quella parte di umanità, definita “white trash”, che abita ai margini della società che del conformismo fa la sua regola di vivere e il suo modo di realizzarsi.
In fondo è il problema di sempre di chi in questa tipologia di vita ci sta stretto e cerca vie di fuga che, spesso, l’unico luogo in cui conducono sono l’emarginazione a vari livelli, la follia in varie forme, fino ad arrivare al suicidio. Le sue, di vie di fuga, sono state l’alcool e la scrittura in cui esprime la capacità di ribaltare in farsa le modalità consolidate di gestire la quotidianità, creando un modo per uscire fuori dalla gabbia di una realtà in cui si sta scomodi.
Leggendolo, questo libro, mi sono venute in mente varie correlazioni: una con la letteratura legata alla Patafisica (Boris Vian per intenderci), “scienza delle soluzioni immaginarie”, in cui si da risalto al particolare, si sottolinea l’eccezione e si trasfigura la realtà descrivendola in modo non sensato, assurdo e surreale, l’unico possibile per poterne parlare.
L’altra è con i racconti di R. Carver, momenti isolati di realtà diverse, brevi episodi di esistenza senza che se ne sappia alcunché del prima e del dopo, spezzoni di vita presi a caso, brevi narrazioni che racchiudono e rendono il senso della vita attraverso brevi spiragli temporali. Ma quello che caratterizza Carver è proprio la scarnificazione della realtà in gesti quotidiani, di cui ci dà una descrizione così come accadono senza alterazioni letterarie, stringate narrazioni di singoli episodi, la comicità e la tragicità della vita così com’è, semplicemente. Brautigan, invece, stravolge la realtà,  ammanta quei singoli episodi di una surreale trasfigurazione.  Il primo scarnifica anche la narrazione, riduce  le parole per  descriverla, le limita all’essenziale; il secondo, rasentando a volte la poeticità, ha costruzioni letterarie più elaborate e le parole diventano stramberie atte all’uso. Entrambi ci danno una visione dell’assurdità della vita in generale e, in particolare, della decomposizione ( in tutti i sensi) del sogno americano. E’ strano sembra che la letteratura americana si divida tra coloro che celebrano il famigerato “sogno americano” e coloro che lo smantellano; il mito per antonomasia ha focalizzato, in negativo e in positivo le forme artistiche del nuovo mondo.
A conclusione di questo tentativo, forse confusionario e, mi sembra,  per niente esaustivo, di parlare di un libro che fa divertire, pensare, anche per decriptare il suo senso, e che lascia un fondo di tristezza e di ineluttabilità, prendo due citazioni una dallo stesso libro e la seconda  da Alain Resneis tratta dal suo film “Mon oncle d'Amérique”:

“ stava partendo per l’America, che spesso è solo un luogo della mente”

“L’America non esiste, io lo so perché ci sono stato”

Consiglio di leggerlo per capire quello che ho provato a dire e…la prossiva volta che vi capita di incontrarlo, Pesca alla trota in America, raccogliete anche voi una nota e mettetela in tasca…….


p.s. dopo aver postato quest’ultima foto di Brautigan,( la prima che ho messo è quella della copertina della prima edizione americana del libro) mi è venuto in mente che la foto, nell’espressione, nel gesto, nella postura etc .etc. è una sintesi visiva di tutto quello che è stato Brautigan, o almeno di quello che io ho capito di lui…una sorta di ultima scena di un film…avete presente gli ultimi fotogrammi di C’era una volta in America, il sorriso, ripreso dall’alto, di Noodle sdraiato sul lettino della fumeria d’oppio ? Beh secondo me quel sorriso racchiude tutto il film, come la foto la personalità di Brautigan.


lunedì 6 febbraio 2012

Molta america in poche righe di un libro

Ho letto questo libro tanto tempo fa, come immagino abbiano fatto molti miei coetanei. In realtà non ne ricordo la trama, riprendendolo ora in mano, ne ho riletto l'incipit e anche la citazione sulla copertina, questa:
"La' attorno c'era aria di mistero. La macchina correva su una strada fangosa elevata sulle paludi che strapiombava da entrambi i lati e lasciava pendere dei viticci. Oltrepassammo un'apparizione: un negro con una camicia bianca che camminava con le braccia levate verso il cielo d'inchiostro. Poteva essere che pregasse oppure invocasse una maledizione. Noi gli saettammo proprio accanto; mi voltai a guardare dal finestrino posteriore per vedere i suoi occhi bianchi". 

Non ho memoria del contesto narrativo in cui questo brano è inserito ma in queste poche righe è nascosto molto più di quello che le parole esprimono….

….aria di mistero….

mistero che aleggia nell’aria dei paesaggi…
quando lo sguardo si perde all’infinito senza che qualsiasi elemento gli faccia da punto di riferimento, lungo le pianure dove di notte incombe un cielo a cupola e le stelle arrivano fino all’orizzonte;
quando il mondo si capovolge e i rilievi si ergono dal basso delimitati da canyon e ci raccontano quello che una volta era il fondo del mare;
quando monoliti scolpiti dal tempo segnano il territorio come giganti muti a testimoniare
la grandezza dell’ignoto;
quando si attraversano paludi che sembrano nascondere nel loro intrigo di acque, rami, radici e alberi il senso oscuro della terra, paure ancestrali avvolte in riverberi di luce umida e visionaria;
quando si percepisce che quella magia e quel senso di mistero e' stato forse compreso solo da coloro che per primi lo vissero, perché lo interpretavano e soprattutto lo rispettavano e lo spirito di quegli uomini, perché solo quello è rimasto, fa parte di quel mistero:

e la macchina correva

Topos nord-americano, l’”on the road” …appunto… il viaggio, lo spostamento, la voglia di andare oltre, il mito di Ulisse il mito della “frontiera”, ma anche la fuga, la fuga da tutto, la fuga da se stessi, dalla vita, dal sogno irrealizzato e irrealizzabile, dal mondo organizzato, dall’io organizzato e nel viaggio, nella fuga gli occhi vedono…vedono scivolare paesaggi, punti di vista e la “libertà” sembra raggiunta….

oltrepassammo un’apparizione…

di “apparizioni” se ne incontrano viaggiando…stranezze di vario genere, umane, paesaggistiche naturali e non…su di una terra gravida di incastri culturali, di aspettative mancate, di crudeltà esasperate, di verità cercate, celate o imposte, di menzogne, di sangue e sofferenze…si aggirano stranezze e pazzie solitarie che si colgono e si lasciano indietro ma che rimangono nella mente…”mi voltai a guardare dal finestrino posteriore per vedere i suoi occhi bianchi.
…apparizione….dell’umanità negata…

….un negro che camminava con una camicia bianca…

contrasto nero/bianco, un contrasto mai sanato…
è l’apparizione di uno degli orrori consumati nel nord America,
una delle sue più assordanti contraddizioni

camminava con le braccia levate verso il cielo d'inchiostro. Poteva essere che pregasse oppure invocasse una maledizione…

camminava e il suo percorso era iniziato da molto lontano e forzatamente; dietro i suoi passi un scia che, senza pietà, dalla terra d’Africa si inabissava in fondo all’Oceano Atlantico, lasciando un “binario di ossa” e riemergeva come psichedelica allucinazione in una sequenza di laceranti urla, latrati di cani , sferzate di frusta, di “strange fruit” pendenti dagli alberi, di fuochi umani, di ventri profanati, di cognomi da mutare in X, di carni e anime lacerate, di affetti strappati, di dignità schiacciate…pregava un dio che non l’ha salvato, malediceva una razza bianca dall’anima nera che l’ha profanato...

gli saettammo proprio accanto….

in un attimo ci possono essere molte cose, in poche righe molto di più di un semplice attimo temporale.