mercoledì 8 giugno 2011

The Tree of Life di Malick




Film complesso e stilisticamente eterogeneo, difficile o troppo facile da interpretare che lascia il dubbio se quello che comunica sia ermeticamente espresso o solo veicolato in forme stilistiche che ricercano un linguaggio poetico meno diretto, più evanescente e, quindi, di più difficile comprensione.
Il film, se non ha contenuti nascosti in simbolismi da stanare a cura di spettatori più esperti e competenti di me, parla della vita e degli interrogativi che da sempre l’uomo si è posto e a cui non è riuscito a dare risposta se non inventando un’entità sopranaturale da cui tutto dipende, o un inserimento cosciente nella natura e nei suoi ritmi, sentendosi partecipe di un esistenza ciclica di cui è una particella che lì trova il suo scopo di esistenza. Ma spesso questo non basta perché la vita ti pone di fronte dolori per i quali non si trovano ragioni.

L’ambiente è quello di una tipica famiglia americana degli anni ’50, una madre affettuosa, un padre padrone (poi pentito) tutto proiettato sul lavoro e la crescita sociale ma dalla sensibilità artistica, e tre bambini. In un tempo non descritto, nella sequenza storica della famiglia, uno dei figli muore, quello che noi vediamo è un periodo precedente al doloroso evento ed uno successivo imperniato sulla figura del figlio maggiore che ripercorre e ripensa alla sua infanzia, alla sua vita, ai suoi affetti famigliari, che cerca di comprendere quello che ha vissuto e di capire le persone che di quel vissuto hanno fatto parte, i membri della sua famiglia non solo nel loro ruolo di  genitori, figli, fratelli, ma anche come semplici persone.

È come se lui agitasse una bottiglia, dentro tutta la sua vita che si stratifica, che si mescola  in un attimo, è tutta lì a rappresentarlo, come se il tempo, nel momento del ricordo del ripensamento, non avesse dimensione e tutto si concentrasse in un unicum, da cui di volta in volta un episodio, una persona si intravedono con maggior evidenza ed escon fuori. Dal regista questo concetto è reso, almeno a mio avviso, con un immagine molto simile ad una del film di Eastwood Hereafter, quella in cui in un luogo non identificabile il protagonista rivede le persone a lui care ed anche se stesso in vari stadi della vita fluttuare in una dimensione non riconoscibile, ( nel film di  Eastwood le persone erano solo quelle oramai non più in vita).

Nel film ci sono espedienti stilistici che il regista usa per inserire nella semplice narrazione elementi che la superano, quali le voci fuori campo ( già molto usate nel film La sottile linea rossa  quasi ad imitare un monologo interiore filmico) che, se pure si intuisce da quali personaggi possano provenire, rivolgono domande universali e per lo più rievocano il conosciuto grido di dolore “ dio perché mi hai abbandonato”, ed immagini fantasmagoriche e d’effetto sull’universo e la nascita di esso, che, oltre a ricordare “2001 Odissea nello spazio”, sono di carattere quasi documentaristico.
 Anche questi espedienti sottolineano la dualità di scelta, enunciata ad inizio film, tra natura e religione, tra stato di grazia e scienza, nel percorrere la propria vita; il regista a parer mio non da risposta, non fa scelte tra queste due opzioni, solo si e ci interroga sul perché la vita a volte ci ponga di fronte a dolori quasi insopportabili e sul dove trovare il conforto necessario a continuare.

Molte le cose ancora da dire ma che ora mi sfuggono, quale per esempio il perché del titolo, L’albero della vita, che sicuramente rimanda alla natura ma forse anche metaforicamente alla linfa vitale che lo stato di grazia può dare all’esistenza; o il significato del deserto come luogo simbolico (forse posso rimandare al mio posto sulla Monument Valley a questo proposito); oppure che la nota stonata del film forse sono le immagini da Jurassic Park che ad un certo punto vengono inserite.

Al di là del significato palese o nascosto del film, la cosa che lo rende “un film da vedere” è il suo valore estetico, l’alternarsi di immagini reali e surreali, scientifiche e spirituali, il velo armonioso che le lega e ne fa forse se non una poesia uno spleen, invece che di parole, di immagini.